A pochi giorni dall'attentato in cui morì il giudice Borsellino, tornano di attualità le sue parole. Ma cosa accadde in Italia in quell'anno? Qualcuno del governo o dei servizi segreti, si accordarò veramente con la malavita?
Città Nuova - Una sera di venti anni fa, presso l’atrio della biblioteca comunale di Palermo, Paolo Borsellino (nella foto con il giudice Falcone), pochi giorni prima di saltare in aria con la sua scorta, tenne il celebre discorso, un monito con la strage di Capaci ancora negli occhi. Era il 25 giugno del 1992. Anch’io ero presente: ero stato appena eletto coordinatore del Movimento per la democrazia La Rete. Un’elezione davvero singolare per la tempistica: subito dopo l’eccidio di Capaci e qualche settimana prima della strage di via d’Amelio. Non avevo mai fatto politica fino a quel momento e probabilmente mi era capitata l’occasione di farla nel momento più buio per la mia terra. Se non mi avesse sorretto la ferma convinzione di ritenere davvero la politica il “più grande atto d’amore per la propria gente” non avrei capito nulla di quel che mi stava accadendo e di quel che stava accadendo.
A vent’anni di distanza viene spesso riproposto in televisione il celebre discorso che Borsellino – che sapeva della sua imminente fine – fece fumando una sigaretta dietro l’altra. «Qualche Giuda», disse quella sera Borsellino non volendo fare nomi, ma lasciando ben intendere tutto. Risentire il suo discorso fa male. Capisci che troppe bugie, troppi ignobili ritardi ci sono stati. «Paolo – dice Ingroia, procuratore aggiunto a Palermo – conosceva una verità che è morta con lui. Si è perso troppo tempo. Sembra che si voglia chiedere alla magistratura di rallentare. La politica – dice ancora Ingroia – faccia un passo avanti, lo dico senza polemica, eviti di insultare i giudici».
Si è parlato tanto in questi giorni della cosiddetta trattativa tra lo Stato e la mafia spesso senza capirne granché. Eppure riguarda un periodo storico contemporaneo a quelle terribili stragi. Nel 1993, infatti, Cosa Nostra lancia la sua offensiva contro lo Stato. Totò Riina è in carcere ma i suoi luogotenenti non desistono e vogliono che lo Stato allenti la pressione sulla mafia, conceda gli arresti ospedalieri a boss come Pippo Calò e Bernardo Brusca. Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Filippo e Giuseppe Graviano vogliono davvero farsi sentire.
Così, nella notte del 14 maggio 1993 un’autobomba esplode in via Fauro, nel quartiere Parioli a Roma. In quel momento stava passando l’auto con a bordo il conduttore televisivo Maurizio Costanzo. Ma nei paraggi, fu trovata anche una macchina, una Y10 che apparteneva all’agente dei servizi segreti Lorenzo Narracci, stretto collaboratore del numero tre del Sisde, Bruno Contrada. Interessante ricordare che tra le macerie e i rottami causati dall’esplosione nell’autostrada di Capaci dove perse la vita Falcone, la moglie e gli agenti della sua scorta, fu trovato un biglietto con il numero di cellulare di Narracci.
Il 27 maggio sempre del 1993, la mafia fa esplodere a Firenze un Fiorino Fiat in via dei Georgofili a pochi passi dalla galleria degli Uffizi. In questa esplosione muoiono ben cinque persone tra le quali una bambina di appena 50 giorni. Il 27 luglio un’altra bomba, questa volta a Milano, in via Palestro, e anche qui muoiono cinque persone. Nella stessa notte altre due bombe a Roma: in piazza san Giovanni e di fronte la chiesa di san Giorgio al Velabro. Il 10 agosto la Dia (Direzione investigativa antimafia) parla in una relazione segreta di «trattativa» e nella relazione si legge «che la strage di Capaci e l’omicidio dell’eurodeputato Salvo Lima sono da interpretare come due momenti significativi di una strategia a difesa di Cosa Nostra». Dopo la strage di via d’Amelio, Cosa nostra è divenuta compartecipe di un progetto «designato – si legge sempre nella relazione della Dia – e gestito insieme a un potere criminale diverso e più articolato. Da ciò è derivata per i capi l’esigenza di riaffermare il proprio ruolo e la propria capacità di direzione anche attraverso la progettazione e l’esecuzione di attentati in grado di indurre le istituzioni a una tacita trattativa».
Tutto ci si sarebbe aspettati a seguito di questa informativa della Dia tranne quello che invece è accaduto: nel novembre successivo non vengono rinnovati 343 provvedimenti di carcere duro per detenuti mafiosi. Ancora oggi non si riesce a capire e a sapere chi fu a dare l’ordine.
Bugie e misteri «Se una cosa abbiamo capito in questi venti anni – ha detto qualche sera fa Rita Borsellino, sorella del giudice Paolo – è che sulle stragi ci hanno raccontato un mucchio di fandonie. C’è stata una rete fatta da chi ha diffuso ad arte le bugie per oscurare la verità».
La Borsellino, come si ricorderà, si riferisce al depistaggio delle indagini sulla strage di via d’Amelio e lei stesse si è chiesta: «Come è possibile che si sia arrivati a sentenze passate in giudicato e che tutto quel castello di bugie sia passato al vaglio anche di magistrati senza che venisse fuori prima la verità?».
La ricerca della verità è talvolta dura anche perché c’è chi rema contro, ma non si può parlare di rinnovamento della nostra democrazia, meno che mai parlare di riforme se non vengono sciolti questi nodi. La questione della legalità – come ho avuto modo di dire in altre occasioni – non è una questione che può riguardare solo l’ambiente della giustizia, ma deve davvero divenire pre-condizione per la politica, per l’economia, per l’educazione.
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