martedì, luglio 31, 2012
Anche oggi situazione di estrema violenza in Siria. Al centro degli scontri tra esercito e milizie dell’opposizione c’è sempre la città di Aleppo, dove stamani è finito in una strage l’attacco dei ribelli ad un posto di polizia: uccisi almeno 40 agenti. I miliziani controllano circa il 60% dell’abitato.

Radio Vaticana - Intanto, sul fronte diplomatico, fallito il piano di pace del mediatore Kofi Annan, partono altre iniziative. Serrati contatti ieri tra Stati Uniti e Turchia, affinché Ankara - secondo le richieste del presidente Obama - si adoperi per accelerare la transizione a Damasco. Sul ruolo che la Turchia può avere nella crisi siriana, Giancarlo La Vella ha intervistato Camille Eid, esperto di Medio Oriente del quotidiano "Avvenire": ascoltaR. – Sappiamo che il ruolo di Ankara è essenziale in ogni coalizione anti-Assad. Innanzitutto, per i lunghi confini tra la Turchia e la Siria e poi perché le zone controllate dai ribelli sono vicinissime a questo confine siro-turco e quindi eventuali aree di sicurezza saranno istituite proprio in quelle zone. Quindi, l’attacco contro il cuore del potere si giocherà a partire dalla Turchia, anche perché il Consiglio nazionale di transizione siriano ha come principale base all’estero la città di Istanbul. Anzi, sono molti che l’accusano di essere influenzato dai servizi di sicurezza o dai miliari turchi.


D. - Sono legittime le proteste della Siria che sta accusando i Paesi limitrofi di inserirsi in una situazione che, secondo Damasco, rientra nella propria sovranità?


R. - E’ un’accusa infondata, in quanto la stessa Siria, quando era potente, è sempre intervenuta negli affari interni dell’Iraq, del Libano, della Turchia, della Giordania, e non si è mai tirata indietro. Adesso è chiaro che questi Paesi, dalla loro, si proteggono, ma la mia impressione è che essi, almeno la Giordania e il Libano, hanno cercato fino all’ultimo di tenersi alla larga da quanto stava e sta tuttora accadendo in Siria, limitandosi all’accoglienza dei profughi. Tuttavia, è chiaro che, loro malgrado, rimangono coinvolti. Sappiamo ad esempio che in Libano le tensioni tra alawiti e sunniti riflettono una guerra civile o confessionale in atto in Siria. Lo stesso vale per l’Iraq. Il governo centrale iracheno ha cercato di mandare le truppe al confine per limitare il flusso dei profughi ed è stato impedito dal governo autonomo turco. Quindi, quando un Paese vive un evento bellico, tutti i Paesi circostanti cercano in qualche maniera di proteggersi, ma non possono non risentire dell’impatto.


D. – Il Libano è uno dei Paesi storicamente sotto l’influenza siriana. Quali conseguenze ci possono essere per Beirut da questa situazione?


R. - Ultimamente un coinvolgimento viene paventato molto spesso. Speriamo che questo non avvenga. Il Libano cerca di fare del suo meglio, ma sappiamo che è ancora sotto l’influenza siriana, perché il governo attuale è molto vicino alla Siria, vi partecipano i filo siriani Hezbollah e anche partiti che sono considerati vicini ad Assad.


D. - Poi c’è Israele: sembra che lo Stato ebraico stia recitando un ruolo di secondo piano in una situazione che invece lo riguarda molto da vicino...


R. – Ultimamente Israele ha evidenziato il rischio che le armi chimiche o batteriologiche siriane siano trasferite a Hezbollah in Libano. Quindi, finché si tratta di un conflitto all’interno della Siria, Israele rimane a guardare, anzi forse gli conviene che il regime di Bashar al Assad continui a impegnarsi in questa guerra civile, perché questo indebolisce il governo centrale, ma alla fine Israele interviene quando invece questo conflitto supera i confini siriani per andare a minacciare la sicurezza di Paesi limitrofi, soprattutto la sua sicurezza.


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