lunedì, luglio 09, 2012
I governi di tutto il mondo riuniti a New York per regolare un settore che non conosce crisi: il commercio mondiale di armi. Poche tuttavia le probabilità di concretizzare un trattato forte e legalmente vincolante.

di Patrizio Ricci

Dal 2 al 27 di luglio a New York i rappresentanti di 193 stati stanno cercando di trovare un accordo che regolamenti il commercio di tutte le armi e i sistemi d’arma militari convenzionali, da quelle di piccolo calibro e leggere alle munizioni, alle tecnologie correlate e a tutte le parti e i componenti . Attualmente nel mondo non esiste una regolamentazione comune per questo tipo di merci, ma solo legislazioni nazionali disomogenee e spesso incomplete. Nello stesso tempo, sta tornando in voga, molto pericolosamente, una mentalità secondo la quale lo strumento militare è indispensabile per favorire la politica estera e per la penetrazione economica delle proprie aziende in zone fortemente instabili.

Quasi a sopperire poi agli effetti della crisi finanziaria globale, i principali paesi produttori (Stati Uniti, Russia, Germania, Francia, Gran Bretagna e Cina) benché abbiano diminuito le esportazioni di armi nei paesi occidentali hanno aumentato le esportazioni proprio verso quelle aree più fortemente instabili, soprattutto il Medio Oriente e il Nord Africa. Il risultato è che nel mondo si muore uccisi da armi da fuoco al ritmo di un uomo al minuto. Ciononostante nell’ultimo decennio l’ esportazione di armi è in costante crescita: per l’Italia l’aumento è sull’ordine del 460% negli ultimi 8 anni (Rapporto 2011 della Presidenza del Consiglio sulle esportazioni di armamenti ). Pur riconoscendo il problema, non si riesce a eliminarlo. E’ una questione di profitti: gli USA da soli lucrano 55 dei 60 miliardi di dollari globali di esportazioni di armi nel mondo. Le superpotenze sono tornate a fronteggiarsi soprattutto con le armi.

Oggi la grande politica che ha contrassegnato il dopoguerra è un lontano ricordo: in questo contesto di debolezza della diplomazia offrire armamenti a paesi terzi vuol dire inserirli nella propria area di influenza e di alleanze. La diplomazia è contrassegnata da grande ambiguità: i paesi ricchi una parte alimentano Il commercio delle armi e dall’altra mettono in moto iniziative umanitarie per limitare i problemi che essi stessi hanno creato. In entrambi i casi, gli affari sembrano essere sopra ogni altra considerazione morale ed etica.

Gli effetti deleteri sono molteplici: il rapporto SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute) del 2011 dice che la vendita di armi porta con sé corruzione, minando le istituzioni democratiche e dilapidando preziose risorse che potrebbero essere investite per soddisfare bisogni sociali urgenti.

E il nostro paese? L’Italia, secondo un rapporto del “Congressional Research Service” ripreso dal quotidiano “New York Times”, è al secondo posto mondiale per la vendita di armi leggere. Mentre il settore militare degli armamenti è sottoposto ad una normativa abbastanza restrittiva, le cose cambiano per pistole, carabine e fucili. In proposito, le disposizioni di legge, che risalgono al 1975, continuano a essere drammaticamente inadeguate. L’Italia ha spesso venduto armi a paesi in conflitto o comunque a regimi che violavano abitualmente i diritti umani. Lo scorso anno, anche nel periodo delle rivolte della cosiddetta ‘Primavera araba’, sono state esportate “armi e munizioni” ai paesi del Nord Africa e ai paesi del Medio Oriente. Con Gheddafi al potere l’Italia è stata fino al 2009 il principale esportatore europeo di armi e successivamente non si è posta alcun problema nel fornire armi anche ai ribelli libici. Al CNS libico le prime forniture addirittura avvengono nel marzo 2011, prima che l’ONU autorizzasse la no fly zone (e comunque fornire armi alle parti in conflitto era vietato). Sappiamo com’è andata: unità della Marina militare hanno trasportato via mare casse di pistole, fucili, mitra, munizioni e altre attrezzature prelevate da depositi in Sardegna, precisamente da La Maddalena e Tavolara: sul caso su cui indagava la magistratura fu subito posto il segreto di Stato.
Infine, c’è la crisi siriana: un incendio alimentato soprattutto dalle armi. Per mezzo di triangolazioni e pratiche illegali dei governi, è la sola merce che non è mai mancata in Siria.

Per queste ragioni, si penserà che la conferenza di New Jork è alquanto opportuna e che giacché la maggioranza dei paesi è d’accordo sulla necessità di emanare regole precise e vincolanti facilmente si giungerà ad un accordo. Purtroppo non è così: gli USA e i principali paesi produttori di armi sono riusciti a far passare una clausola che stabilisce che il trattato sarà approvato solo se votato all’unanimità. Questo vuol dire che basterà uno solo dei 193 paesi partecipanti a opporvisi e non se ne farà nulla. Nel dopoguerra, quando le superpotenze si fronteggiavano minacciosamente e incombeva l’incubo atomico, Giovanni XXIII nell’enciclica ‘Pacem in Terris’ potentemente ammoniva: “ Una convivenza fondata soltanto su rapporti di forza non è umana. In essa, infatti, è inevitabile che le persone siano coartate o compresse, invece di essere facilitate e stimolate a sviluppare e perfezionare se stesse”. Allora l’Enciclica fu ascoltata evitando la catastrofe nucleare, oggi bisognerebbe rileggerla.

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