martedì, agosto 28, 2012
Sabato scorso a 82 anni è morto Neil Armstrong, il primo uomo a mettere piede sulla Luna, il 21 luglio 1969. Appena sceso dal modulo e impressa la prima orma nella polvere lunare pronunciò una frase destinata a diventare celebre: «questo è un piccolo passo per un uomo, ma un grande passo per l'umanità». 

GreenReport - E, in effetti, lo era. Neil Armstrong aveva dato la plastica dimostrazione che Homo sapiens stava andando oltre l'ambiente in cui era nato e nel quale aveva vissuto nel corso di duecentomila anni. Mai nessun altro membro della nostra specie aveva messo piede su un altro corpo celeste. La "conquista dello spazio" che ha toccato il suo apice con quel piccolo passo di Armstrong ha, dunque rappresentato, per così dire, una transizione di fase nell'ecologia umana.

Ma non perché - come molti immaginava in quell'estate di 43 anni fa - l'uomo abbia effettivamente iniziato la colonizzazione di altri pianeti, satelliti naturali, comete o qualsivoglia altro oggetto cosmico. Lo sbarco sulla Luna avvenne in un contesto, forse irripetibile, di competizione assoluta non solo tecnologica, ma anche e soprattutto militare e ideologica tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Una competizione che non poteva essere risolta con una guerra, che non avrebbe potuto avere vincitori, e che andava risolta "con altri mezzi". Lo spazio era un luogo di elezione per questa competizione. Tagliato il massimo traguardo d'immagine possibile - lo sbarco sulla Luna, appunto - l'esplorazione umana dello spazio, ha piuttosto rapidamente perduto la sua centralità. Non è un caso che Nixon già nel 1970 spostò la frontiera della sfida tecnologica, dichiarando aperta la «guerra al cancro».

No, la "conquista dello spazio" ha rappresentato una transizione di fase nell'ecologia umana per altre tre ragioni. La prima è stata ben espressa da un'altra considerazione di Armstrong, quella sulla fragilità dell'arancia bianca e blu da cui era partito e che ora, dalla Luna, vedeva sorge e tramontare. Neil, tanti altri suoi colleghi e noi stessi 43 anni fa abbiamo potuto avere la "sensata esperienza" di questa condizione osservando, per la prima volta nella storia dell'umanità, la Terra da lontano. Si trattava di una "sensata esperienza" di portata analoga, ma di segno opposto a quella realizzata da Galileo quando, quattrocento anni prima, aveva puntato il cannocchiale dalla Terra verso il cielo. Ora Armstrong e le telecamere puntavano i loro occhi dal cielo verso la Terra e ce la offrivano in visione in diretta televisiva. In quel momento, forse, abbiamo acquisito una consapevolezza ecologica nuova. A centinaia di milioni abbiamo "visto" e, dunque, abbiamo interiorizzato quanto piccola e, appunto, fragile appaia la Terra rispetto a quella che pochi mesi dopo, nel 1970, il biologo Jacques Monod definirà: "l'immensità indifferente del cosmo".

Ma lo spazio ha avuto almeno altri formidabili impatti ecologici. Con una serie enorme di satelliti messi in orbita intorno alla Terra e con molte sonde inviate lontano nello spazio profondo abbiamo potuto osservare la Terra, studiarla dal punto di vista scientifico. La quantità di nuova conoscenza che abbiamo acquisito rispetto al nostro pianeta è davvero inestimabile. Solo per fare qualche esempio: è dallo spazio che abbiamo individuato il "buco dello ozono" e ottenuto i dati più importanti sui cambiamenti del clima accelerati dall'uomo. È anche con l'aiuto dei satelliti che gli ecologi studiano gli ecosistemi o individuano gli "hot spot" di biodiversità. Sono i satelliti che aiutano i geologi a capire i meccanismi profondi della dinamica terrestre. In breve, non c'è scienza che si occupi della Terra che possa fare a meno del punto di osservazione spaziale. Tanto che potremmo considerare la «conoscenza del pianeta Terra» come il principale obiettivo scientifico raggiunto in quasi sessant'anni di esplorazione dello spazio.

Ma c'è di più. Con la rete di satelliti tessuta nello spazio l'uomo ha creato, letteralmente, un nuovo habitat. Un habitat cognitivo, in cui tutti sono connessi con tutti in tempo reale, che ridotto il pianeta, come dice qualche sociologo, a un unico «villaggio globale». Non ci sarebbe internet, con ci sarebbero i supporti elettronici e delle loro "app" che ha diviso l'umanità in due: gli «immigrati digitali», coloro che, con i satelliti, sono sbarcati in questo "nuovo mondo interconnesso" e i "nativi digitali" le nuove generazioni che sono nate in questo nuovo ambiente digitale che si è creato sotto la coltre dei satelliti. È un ambiente globale, questo digitale, che cambia rapidamente che ha nuove regole ecologiche. Che ancora non conosciamo. Capire quali sono queste regole è forse la più grande sfida che la scienza ha di fronte.

Lynn Margulis, la grande teorica della simbiosi, sosteneva che Armstrong e i suoi colleghi altro non erano che lo strumento utilizzato dagli esseri viventi più potenti che siano mai apparsi sulla Terra, i batteri, per uscire fuori dal piccolo pianeta e colonizzare il cosmo. Il piccolo passa di Armstrong sarebbe stato, dunque, un grande passo anche per i piccoli organismi unicellulari. Mai avremmo immaginato che in questo tentativo di espansione lo strumento, più o meno consapevole, utilizzato dai batteri, l'uomo, avrebbe creato un nuovo ambiente dove vivere. Possibilmente, ma non necessariamente, migliore.

Pietro Greco 




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