venerdì, agosto 31, 2012
Di pochi giorni fa è la sentenza della Corte di Strasburgo che boccia la legge italiana sulla procreazione medicalmente assistita nella parte in cui vieta la diagnosi preimpianto anche su embrioni concepiti artificialmente da gameti provenienti da una coppia portatrice sana di malattie genetiche. In particolare la Corte denuncia l’incoerenza del divieto con la possibilità riconosciuta alla donna dall’ordinamento italiano di interrompere la gravidanza in caso di malformazioni o anomalie del feto, riaccendendo il dibattuto tema dei rapporti tra la legge 40 e la legge 194.

di Bartolo Salone

Il caso esaminato dalla Corte europea trae origine dalla richiesta di una coppia (non sterile) di aspiranti genitori, portatori sani di fibrosi cistica, di sottoporsi alle tecniche di fecondazione artificiale allo scopo di poter eseguire sugli embrioni generati “in vitro” uno “screening” genetico diretto a selezionare quelli sani da impiantare nell’utero materno. Si tratta di quella particolare tipologia di diagnosi prenatale che, proprio perché eseguita su embrioni concepiti artificialmente prima del trasferimento in utero, viene correntemente definita come diagnosi preimpianto o preimpiantatoria. Una metodica ormai utilizzata in quasi tutti gli Stati europei (con l’eccezione dell’Italia, dell’Austria e della Svizzera), nonostante le innumerevoli perplessità che suscita non solo sul piano etico, ma anche su quello più strettamente clinico (si rammenti brevemente che non sempre la diagnosi preimpiantatoria fornisce risultati sicuri, potendo dare dei falsi negativi o dei falsi positivi, e per di più rischia essa stessa di danneggiare gli embrioni sottoposti a screening, rendendoli inidonei al trasferimento in utero).

Due gli aspetti affrontati dalla sentenza: da un lato la legittimità dell’esclusione delle coppie fertili dall’accesso alle tecniche di procreazione artificiale (tecniche che la legge 40/2004 riserva alle sole coppie sterili e che le Linee Guida approvate nell’aprile del 2008 dall’allora Ministro per la Salute Livia Turco hanno esteso anche alle coppie in cui l’uomo sia portatore di malattie virali sessualmente trasmissibili come l’Hiv o l’epatite B e C, onde evitare appunto il rischio di contagio dell’altro partner) e dall’altro il divieto di diagnosi preimpiantatoria. Aspetti, come appare evidente, decisamente interrelati, poiché in casi come quello considerato in cui la coppia, pur non sterile, è portatrice sana di malattie genetiche, il ricorso alla fecondazione artificiale è funzionale proprio alla esecuzione della diagnosi preimpianto quale mezzo necessario per individuare gli embrioni sani da destinare alla successiva gravidanza.

Ebbene, la Corte europea dei diritti dell’uomo perviene alla conclusione che il divieto generalizzato di diagnosi preimpiantatoria previsto dalla normativa italiana contrasti con l’art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, risultando lesivo del diritto ivi riconosciuto al rispetto della vita privata e familiare. Né l’interferenza alla sfera privata e familiare realizzata dal divieto di diagnosi preimpiantatoria appare giustificabile – secondo la Corte – alla luce delle ragioni addotte dal Governo italiano, e segnatamente l’esigenza di protezione della salute del bambino (oltre che della madre) e di prevenzione del rischio di abusi eugenetici. Tali giustificazioni non paiono alla Corte convincenti, dato che la stessa legislazione italiana, pur vietando la diagnosi preimpianto, consente alla donna di interrompere in qualunque momento la gravidanza in caso di riscontrate anomalie o malformazioni del nascituro. La diagnosi reimpianto invece, quando vi è ragione di temere che il concepito sia esposto al rischio di malattie ereditarie, metterebbe la donna in condizione di rifiutare il trasferimento in utero, prevenendo così la necessità di ricorrere successivamente all’aborto, con il carico di ansietà e sofferenza che questo comporta.

Insomma, la pronuncia del giudice europeo (non ancora definitiva, ma destinata a diventarlo qualora il Governo decidesse di non proporre ricorso) mette sul tappeto il delicato tema della compatibilità della legge 40 (sulla procreazione medicalmente assistita) con la legge 194 (sull’aborto), ravvisando un contrasto insanabile tra le due discipline per il tema qui riportato. E’ questo il punto della sentenza che sta suscitando le maggiori discussioni in questi giorni, tanto più che la conclusione cui è pervenuta la Corte di Strasburgo sembra basarsi su una lettura superficiale e non sufficientemente meditata della legge 194. La Corte sembra infatti partire dal presupposto che la legge italiana ammetta l’aborto in funzione “eugenetica”, cioè in funzione della selezione dei feti sani (e del conseguente scarto di quelli ammalati o con malformazioni). In realtà non è così, poiché la legge 194 configura l’interruzione della gravidanza esclusivamente quale mezzo di tutela della salute della donna: quindi, le malformazioni del nascituro rilevano non in sé, ma solo in quanto suscettibili di incidere sulla salute fisica o psichica della gestante. Se non vi è pericolo per la salute fisica o psichica della donna, l’aborto, a rigore, non dovrebbe essere consentito. Se l’aborto, tuttavia, anche in Italia viene spesso concepito e praticato in funzione di selezione o di controllo delle nascite, ciò è dovuto ad un modo errato di intendere la legge. Allora, stando così le cose, sarebbe il caso non già di modificare la legge 40 (facendo venir meno il divieto di diagnosi preimpiantatoria), ma semmai di modificare opportunamente la legge 194 introducendo dei correttivi volti a disincentivare il ricorso all’aborto per finalità diverse da quelle che la legge stessa ammette. Uno Stato civile non può permettersi il lusso di far passare il principio per cui la vita di chi è malato o handicappato vale meno di quella di chi è sano. L’utopia della razza perfetta è tipica, infatti, dei regimi totalitari, non delle democrazie. E dal canto suo – va ammesso con un pizzico di amarezza e di preoccupazione – la diagnosi preimpianto così come l’aborto “selettivo” (ossia l’aborto privato di ogni finalità “terapeutica”) sono chiari segni dello scivolare lento, ma progressivo, della civiltà europea verso derive eugenetiche che è bene non assecondare.

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