L'impresa che in diretta televisiva e al costo di 2,5 miliardi di dollari ha portato Curiosity a toccare il suolo marziano, rappresenta davvero un grande exploit tecnologico , come ha dichiarato con un entusiasmo molto marcato il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama.
GreenReport - Non solo e non tanto perché non è semplice lanciare dalla Terra e far raggiungere Marte in perfette condizioni operative un "suv" (che potrebbe essere acronimo, in questo caso, non di Sport Utility Vehicle, utilitaria sportiva, ma di Super Utility Vehicle, super utilitaria) da 899 chilogrammi. Ma anche e soprattutto perché Curiosity è un robot di servizio capace di muoversi in autonomia, ovvero senza concorso umano, in un raggio di 20 chilometri in un ambiente estremo.
Le ricadute di questa performance saranno certo notevoli per gli Stati Uniti, anche in termini economici (la robotica è una delle "stelle dell'innovazione" che promettono di dominare i mercati ad alta tecnologia del futuro). Ma, dal punto di vista scientifico, Curiosity rappresenta una grande sfida ecologica.
Deve infatti scoprire lì, ai piedi del Monte Sharp, nel cratere Gale dove è atterrato, l'"abitabilità" del pianeta Marte. In realtà si tratta di verificare due condizioni di abitabilità affatto diverse. Una di prospettiva, relativa alla presenza umana sul pianeta rosso: ci sono le condizioni per una permanenza più o meno lunga dell'uomo su Marte? L'altra è, molto probabilmente, di retrospettiva: nel passato del pianeta ci sono state le condizioni minime necessarie a ospitare la vita? La domanda, in realtà, ammette una subordinata: c'è oggi vita su Marte? Ma pochi pensano che la risposta a questa domanda possa essere positiva. Non fosse altro perché una delle condizioni che noi riteniamo primarie per la presenza della vita - la presenza di acqua liquida - oggi su Marte sembra improbabile. Anche se il cratere Gale è stato scelto perché è considerato una delle aree del pianeta dove è massima - se acqua liquida c'è - è massima la probabilità di provarla.
Ora il robot Curiosity - il cui vero nome all'anagrafe della Nasa è non a caso Mars Explorer Laboratory - ha un'invidiabile attrezzatura per realizzare la missione che gli è stata affidata. Anche se, bisogna dire, la comunità scientifica non ha raggiunto un'omogeneità di vedute su quali siano le condizioni di abitabilità minime. In fondo la vita è presente sulla Terra in un range di condizioni così ampio, che trovare il massimo comun divisore dell'abitabilità non è semplice.
E se non è semplice sul nostro pianeta, figurarsi su un altro pianeta, con condizioni ambientali sensibilmente diverse. Tuttavia la ricerca delle condizioni minime di abitabilità per una qualsivoglia forma di vita spalanca a un'altra domanda. Ammesso che quelle condizioni di abitabilità (qualsiasi esse siano) ci siano o ci siano state, qual è la probabilità che ci sia o ci sia stata davvero la vita in una qualche forma? Restringiamo, per comodità, lo spazio della risposta assumendo (cosa niente affatto scontata) che l'unica vita possibile sia la nostra: fondata sul carbonio, con acidi nucleici a fare da materiale genetico e proteine a svolgere le funzioni biologiche essenziali.
La domanda è: l'abitabilità, secondo i nostri parametri, è condizione sufficiente per l'esistenza della vita?
Ebbene, le risposte della comunità scientifica a questa domanda sono così diversificate da coprire tutto lo spettro possibile. Si va infatti dallo scetticismo assoluto del grande biologo, premio Nobel, Jacques Monod, che in un famoso libro del 1970, Il caso e la necessità, facendo un po' di conti sulla probabilità che piccole molecole si mettessero spontaneamente insieme per formare i grandi polimeri biologici concluse: la vita è una fluttuazione statistica irripetibile. Rassegniamoci, perché «siamo soli nell'immensità indifferente del cosmo».
In realtà dopo Jacques Monod sono state scoperte molte strade matematiche, fisiche e chimiche capaci di bucare il muro dell'impossibilità statistica e di accorciare la strada verso l'autorganizzazione. Tanto che, nel 1995, il medico e biologo americano Stuart Kauffman ha scritto un libro con un titolo che più esplicito non si può: At Home in the Universe. La vita è a casa propria nell'universo. Perché appena se ne creano le condizioni esse emerge necessariamente dal caos, come forma autorganizzata della materia.
Kauffman si diceva (e si dice) così convinto di questo assunto, da sostenere che presto l'uomo troverà le condizioni minime sufficienti a far emergere la vita in laboratorio.
Sono passati quasi vent'anni da quella forte dichiarazione, ma di generazione artificiale della vita non c'è traccia.
A questo punto due cose sono certe: possiamo scartare con ragionevole certezza i due punti di vista estremi sulla teoria dell'abitabilità come condizione necessaria e sufficiente per la presenza della vita. La vita non è un "miracolo statistico", perché le vie dell'autorganizzazione sono infinite. Ma l'abitabilità non è di per sé sufficiente a far emergere la vita.
Dove si pone, dunque, l'ago del possibile? Più vicino all'assoluta improbabilità o più prossimo all'assoluta necessità? Non lo sappiamo. È ovvio che chi, come la Nasa, investe 2,5 miliardi di dollari per cercare una risposta spera che l'ago del possibile cada più vicino all'estremo indicato da Kauffman. Ma da un punto di vista scientifico ovunque sia l'ago non è di importanza dirimente. Quello che è davvero importante è cercare di definire bene dov'è l'ago della probabilità. Gli investimenti per la doppia missione ecologica di Curiosity - trovare le condizioni di abitabilità (presenti o passate) e verificare se a esse corrisponde la presenza (presente o passata di vita - sono, anche da questo punto di vista, ben spesi.
Pietro Greco
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