domenica, agosto 26, 2012
Al Cdm il ministro alle Politiche agricole rilancia la lotta contro il consumo selvaggio di suolo. Mario Catania: «Contro la speculazione necessario raccordare politiche agricole mondiali». 

GreenReport - In dieci anni un'area di suolo pari a tutta l'estensione del Veneto (2 milioni di ettari) ha abbandonato l'Italia, inghiottita dal cemento. L'allarme lanciato da Cia (Confederazione italiana agricoltori) spiana la strada alla bozza del ddl contro il consumo di suolo agricolo presentata oggi dal ministro alle Politiche agricole, Mario Catania, nel corso del Consiglio dei ministri. «Una proposta che incontra il nostro appoggio e il nostro sostegno, andando nella direzione da noi auspicata da anni - affermano dalla Cia - Dall'estensione della superficie coltivata dipende direttamente l'autosufficienza alimentare del nostro Paese, che ad arriva a coprire il fabbisogno di cibo di tre cittadini su quattro. E se si va avanti a questo ritmo la sottrazione di terreni agricoli rischia di aumentare considerevolmente la nostra dipendenza dall'estero. Dovendo ricorrere ulteriormente alle importazioni per coprire il deficit produttivo. Da una parte cresce la domanda di cibo e dall'altra diminuiscono le terre coltivate. Una contraddizione che va affrontata sia a livello nazionale che a livello globale, dove Fao e Ocse stimano che per sfamare i 9 miliardi di persone che saremo nel 2050 bisognerà aumentare la produzione agricola del 60 per cento in 40 anni».

Continuando di questo passo, entro il 2030 spariranno 70 ettari al giorno di suolo agricolo, quando «perdere suolo agricolo vuol dire aumentare la nostra dipendenza dall'estero sul fronte alimentare, oltre che mettere a rischio un patrimonio paesaggistico rurale che vale 10 miliardi di euro l'anno». Un percorso del tutto insostenibile.

Lo stesso ministro Catania, in un'intervista sulle pagine del Manifesto di oggi, afferma che «a livello nazionale dobbiamo affrontare una serie di questioni: il consumo del suolo, appunto, e poi il problema dell'acqua. Due punti su cui bi­sogna voltare pagina; devono far parte di un nuovo modello di sviluppo perché negli ultimi 50-60 anni abbiamo inseguito una sviluppo in­controllato e non programmato di attività indu­striali e di edilizia. Crescita vuoi dire anche tute­la del made in Italy e funzionamento della filiera agricola in modo da assicurare reddito agli agri­coltori. L'agroalimentare può dare un grosso contributo alla crescita. Sia chiaro, non sto teo­rizzando il ritorno alla civiltà rurale, sarebbe ridi­colo, ma un modello più armonico che premi la qualità dei prodotti, in sintonia con l'ambiente, la qualità della vita e del lavoro.

È inconcepibile, infatti, che da esportatori di grano, oggi in Italia l'approvvigionamento di grano tenero rimanga largamente al di sotto del 50% mentre per il gra­no duro siamo al 70-80%. Non siamo autosuffi­cienti nemmeno nell' olio di oliva, fermo aI 75-80% dell'approvvigionamento. Rimaniamo in eccedenza solo con vino, riso e ortofrutta. Per­ché da troppo tempo non abbiamo una vera po­litica agricola. E se viviamo bene è solo perché siamo in un periodo storico di pace, in occiden­te. Ma non dobbiamo farci illusioni: la doman­da mondiale crescerà più dell'offerta».

Proprio in quanto problema globale (e di primissima importanza) quello della gestione delle risorse alimentari merita un'azione coordinata a livello planetario. Lo esige la necessità di sottrarre tali commodities dai movimenti speculatori di una finanza rapace e attiva sui mercati internazionali. «Le transazioni sulle commodities agricole - continua Catania nell'intervista - sono decine di volte superiori al valore delle transazioni reali. Per fermare la cosiddetta volatilità dei prezzi, dovuta anche all' effetto della specula­zione, bisogna regolamentare il mercato dei deri­vati che amplifica le tendenze e quindi dilata gli andamenti reali. E l'unico modo per farlo è rac­cordare le politiche agricole mondiali. L'anno scorso, al G20 di Parigi, come capo dipartimento del ministero, ci ho provato in accordo con i fran­cesi. Ma c'è una cultura predominante che si ri­fiuta di mettere le mani sui mercati finanziari». Una cultura da smantellare, magari partendo proprio dal territorio più sensibile, quello riguardante le commodities alimentari.


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