sabato, agosto 25, 2012
Cos’è davvero la fede? Una misteriosa e repentina folgorazione o qualcosa di diverso? L’episodio della guarigione del cieco può aiutarci a rispondere a questo interrogativo.

di Bartolo Salone

E giunsero a Gerico. E mentre partiva da Gerico insieme ai discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Costui, al sentire che c'era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». Molti lo sgridavano per farlo tacere, ma egli gridava più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». Allora Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». E chiamarono il cieco dicendogli: «Coraggio! Alzati, ti chiama!». Egli, gettato via il mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: «Che vuoi che io ti faccia?». E il cieco a lui: «Rabbunì, che io riabbia la vista!». E Gesù gli disse: «Va', la tua fede ti ha salvato». E subito riacquistò la vista e prese a seguirlo per la strada (Mc 10, 46-52).

Un incontro speciale quello descritto da questa pagina del Vangelo: Gesù e un uomo cieco che riacquista la vista. Storia di un miracolo, e, come ogni miracolo, storia di una conversione. Nella prospettiva cristiana, infatti, non c’è miracolo senza fede. E’ proprio sul crinale della fede che si scorge allora la differenza tra il miracolo e ciò che è semplicemente prodigioso. Possono esservi infatti miracoli che non hanno nulla di prodigioso (quanti segni il Signore semina silenziosamente nella nostra vita quotidiana, senza far clamore!) e, per converso, prodigi che non hanno nulla di miracoloso.

La guarigione di Bartimèo dalla cecità è dunque narrazione di un percorso di fede. L’evangelista ne evidenzia le tappe fondamentali, quelle stesse che possiamo ritrovare anche nel nostro cammino personale, ove vissuto nell’autenticità. La fede non è presentata come una sorta di fulminazione improvvisa (contrariamente all’idea che molti di noi ne hanno), bensì come il risultato di un cammino, che richiede una premessa e che passa attraverso varie fasi. La premessa imprescindibile di qualunque cammino di fede è l’umiltà, il prendere coscienza del proprio stato di infermità. Chi non ammette la propria infermità, non può seguire veramente Gesù, poiché non è in grado di comprenderne fino in fondo la missione. Solo se ci si riconosce peccatori e bisognosi di salvezza, si potrà scorgere in Gesù Cristo il nostro Salvatore. E’ appunto quanto fa Bartimèo, nel gridare: “Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me!”. E il contrario di quel che fa la folla che da Gerico seguiva Gesù, nel tentare di ridurre al silenzio questo povero cieco. Bartimèo riconosce la propria miseria e grida perché Gesù lo salvi. La folla, al contrario, nella sua insensibilità e spietatezza, cerca di emarginare il peccatore, avendo già pronunciato in cuor suo sentenza di condanna. Per singolare paradosso, Bartimèo, nella sua cecità, scorge quel che la folla non è capace di vedere: vale a dire, la misericordia di Dio. I ruoli improvvisamente si capovolgono: il cieco vede chiaramente, mentre la folla, fatta di persone che presumono di vederci chiaro, in realtà è affetta da una doppia cecità, poiché non si avvede né del proprio peccato né, di conseguenza, della necessità della misericordia di Dio. Anche noi, che diciamo di essere cristiani, dovremmo allora chiederci in tutta onestà se conosciamo veramente Gesù o se, come la folla del vangelo, ci illudiamo soltanto di essere nella luce.

L’umiltà, dicevamo, intesa come capacità di riconoscere e di ammettere davanti a Dio la propria piccolezza e miseria, è il presupposto del cammino di fede. Ma umiltà non significa affatto rassegnazione o fatalismo. Se necessario, per farci sentire, bisogna allora gridare. Gridare per vincere la sordità e l’indifferenza, gridare per resistere a quanti, nella loro superba autosufficienza, vorrebbero impedirci perfino l’incontro con Dio. Fede significa quindi anche saper reagire, nella lucida consapevolezza che colui che ci ha creati può e vuole anche salvarci. Per questo Bartimèo grida, rivendicando la propria dignità di figlio di Dio, quella dignità che con troppa facilità permettiamo agli altri (e talvolta a noi stessi) di calpestare.

A questo punto interviene Gesù, chiedendo ai presenti di chiamare Bartimèo. La seconda tappa del cammino di fede consiste allora nel prendere coscienza della chiamata di Dio. Quando questo avviene, è possibile l’incontro. E per consentire agli uomini di prendere consapevolezza della sua chiamata Cristo si serve il più delle volte di noi fedeli come di messaggeri. E’ eloquente il fatto che Gesù non chiami direttamente Bartimèo, ma lo mandi a chiamare. Così facendo egli redime non solo quel povero cieco che grida, ma l’intera folla dei “finti” vedenti: di quella stessa folla ora Gesù si serve per chiamare Bartimèo. Guarita dalla sua indifferenza, la folla può farsi adesso strumento di salvezza: in un sol colpo Gesù salva sia la folla sia Bartimèo.

Alle parole: “Coraggio, alzati, ti chiama!”, Bartimèo balza in piedi e, gettato via il mantello (la sola certezza di vita che quel mendicante aveva), viene incontro a Gesù. A questo punto, mediante l’incontro con Cristo, la fede è perfetta e, ottenuta la guarigione spirituale, segue la guarigione fisica, che della prima è “segno”. Capiamo allora come la fede cristiana non sia mera adesione ad una Idea o un’astratta ideologia, ma piuttosto incontro con una Persona che ti cambia l’esistenza. Il cristianesimo rifugge da ogni ideologizzazione: i suoi riti, la sua dottrina, i suoi dogmi sono funzionali a rendere possibile l’incontro con il Dio persona. L’adesione formale ai dogmi così come la partecipazione esteriore ai riti e alle liturgie da soli non bastano. Solo quando si realizza l’incontro con Dio, la fede può dirsi perfetta e la salvezza possibile. Significativa anche la notazione finale del vangelo: “E subito riacquistò la vista e prese a seguirlo lungo la strada”, come a dire che, dopo il primo incontro con Gesù, inizia la sequela, una sequela che deve durare tutta la vita fino all’eternità.

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