Vigilia di Paralimpiadi. Si riaccendono i riflettori su Londra a distanza di due settimane dai Giochi.
Radio Vaticana - Da domani fino al 9 settembre, saranno in Gran Bretagna 4.200 gli atleti provenienti da 166 Paesi. Un aumento di 250 partecipanti e 20 paesi in più rispetto a Pechino 2008. Stamani l'arrivo della spedizione italiana, 97 gli atleti - il più alto numero di sempre - molte le occasioni di medaglia. Al microfono di Benedetta Capelli, il presidente del Comitato Paralimpico Luca Pancalli, appena giunto a Londra: ascolta
D. – Un numero alto, quello degli atleti in gara per queste Paralimpiadi. Sembra che ci sia un’atmosfera un po’ diversa, rispetto al passato: almeno, qui in Italia, si respira un grande entusiasmo intorno a questa spedizione. E’ così?
R. – Sì: devo dire che onestamente anch’io ho notato non solo un grande entusiasmo, ma soprattutto grande attenzione, sicuramente maggiore rispetto al passato il che mi conforta. E questo è anche dimostrato dai 90 giornalisti della carta stampata accreditati qui a Londra e dalla presenza di Rai e Sky in maniera massiccia. E’ evidente che il movimento di crescita del mondo paralimpico, sia a livello internazionale che nazionale, sta portando i suoi risultati.
D. – Ma c’è stato, forse, un salto per quanto riguarda la cultura dello sport o no?
R. – Devo dire che stiamo assistendo – anno dopo anno, parlimpicamente parlando, quadriennio dopo quadriennio – a un lento processo riformatore, dal punto di vista culturale, che ha portato non tanto e non solo maggiore attenzione, quanto soprattutto un’attenzione di qualità. Si è cominciato a perdere, da un po’ di anni a questa parte, atteggiamenti pietistici e solidaristici per valorizzare la prestazione degli atleti che sono atleti con la “A” maiuscola, per ricordare che sicuramente sono atleti con disabilità, sono persone con disabilità, ma hanno scelto nella loro vita di essere atleti e come tali devono essere rispettati nella loro dignità. Per cui credo che questa qualità, sicuramente nuova in termini di attenzione, stia aiutando ancor più la grande famiglia dello sport, sia esso internazionale che nazionale.
D. – Quali sono gli obiettivi di questa spedizione italiana?
R. – Uno l’abbiamo già raggiunto ed è quello di avere la spedizione, la delegazione più ampia di sempre dalle ultime paralimpiadi del 1988 a Seul, per cui in poco più di 20 anni siamo riusciti a tornare ad avere una massiccia presenza. Questo significa che siamo riusciti a curare sia il top level, ma anche l’attività promozionale. Io, naturalmente, mi aspetto – perché poi non dimentichiamo, al di là dei discorsi culturali, che ci troviamo in una dimensione sportiva e su un terreno di confronto agonistico – dagli atleti grandi risultati e sicuramente di migliorare la nostra posizione nel medagliere rispetto a Pechino. Abbiamo le chance di poterlo fare, possiamo dire la nostra in quasi tutte le discipline nelle quali siamo presenti, per cui con questo ottimismo io mi appresto a vivere la Londra paralimpica. Fermo restando che, da ultimo, il mio obiettivo di sempre è l’auspicio che poi, attraverso le straordinarie imprese di questi atleti, le storie anche umane – perché, ovviamente, dietro a ogni atleta c’è un uomo, c’è una donna, una persona – si possa arrivare a tanti ragazzi e ragazze disabili del nostro Paese che ancora non hanno scoperto quanto sia straordinario lo sport e quanto lo sport non ammetta differenze.
D. – Dott. Pancalli, noi come Radio Vaticana abbiamo raccolto veramente tante storie di atleti che si spendono e si impegnano ogni giorno per lo sport, in ogni senso. Le chiedo se lei ha una storia, un volto che secondo lei più di altri rappresentino questa spedizione azzurra...
R. – No, non ho assolutamente un volto che più di altri rappresenti la spedizione azzurra. Ciascun atleta che è qui presente a Londra ha coronato già un suo piccolo sogno, quello di recitare sul palcoscenico sul quale, sportivamente parlando, qualsiasi atleta sogna di poter recitare, sia esso olimpico o paralimpico. Poi, ognuno di loro – secondo me – rappresenta un esempio. Ce ne sono alcuni, ovviamente, dai cognomi famosi che la comunicazione predilige e che sicuramente hanno il merito di aver saputo mettersi in gioco, nonostante poi a volte la notorietà potrebbe giocare al contrario. Però, nessuno di loro primeggia sugli altri. Diciamo che tutti ci identifichiamo – me compreso, come presidente – nel portabandiera: Oscar De Pellegrin, che è colui che avrà avuto l’onore di essere scelto per portare il nostro Tricolore e dietro il quale tutti noi ci riconosciamo.
D. – C’è solo una nota – per così dire – stonata, che un po’ ha preceduto questi Giochi, e cioè l’episodio di doping e quindi l’esclusione di Fabrizio Macchi. Una parola su questo:
R. – Tanta amarezza, non una parola. Sottolineo che non c’è stato un caso di doping, c’è stata la violazione di una norma del codice antidoping. L’atleta non è stato trovato positivo: l’atleta è stato deferito e pertanto è escluso dalla delegazione perché ha violato una norma del codice antidoping che vieta agli atleti di intrattenere rapporti con soggetti inibiti. Questo lo dico per chiarezza, perché poi la giustizia sportiva farà il suo corso e Fabrizio avrà modo e tempo di difendersi. Ho detto “tanta amarezza” perché da un atleta che veste la maglia azzurra io non me lo aspetto. Non me lo aspettavo. Un atleta che veste la maglia azzurra ha dei doveri in più rispetto a qualsiasi altro atleta, ovvero sia quello di sapere che riveste non soltanto un esempio per tutti gli altri ragazzi e ragazze, atleti e atlete del Paese - proprio perché ha l’onore di vestire la maglia azzurra - sia ha il dovere anche di rispettare quei codici etici e deontologici al di là delle norme scritte sull’antidoping che rappresentano e che sono insite nella maglia azzurra. Ecco. Da questo punto di vista, tanta amarezza.
Sono un centinaio gli atleti italiani presenti alle Paralimpiadi 2012, tra di loro anche Alex Zanardi, ex pilota, conosciuto per il coraggio dimostrato dopo il drammatico incidente di macchina nel 2001 in Germania sulla pista del circuito Champcar e nel quale perse le gambe. A Londra si presenta nella disciplina della handbike. Benedetta Capelli lo ha intervistato: ascolta
R. - In qualche modo, il mio obiettivo è riuscire a tornare convinto di aver dato tutto e di aver preparato questa gara nel modo migliore possibile. In verità il mio è un percorso iniziato nel momento stesso in cui ho scoperto l’handbike, cioè nel 2007, in occasione della maratona di New York alla quale partecipai. La cosa davvero eccitante e bella è provarci: mettersi in strada e se io raccontassi che mi aspetto di incontrare la felicità a Londra sarei falso, perché la felicità l’ho incontrata nel momento stesso in cui ho deciso quale era l’orizzonte verso il quale volevo puntare. Ho intrapreso questo percorso, ed è stata un’avventura davvero eccitante.
D. - La tua vita ovviamente è stata caratterizzata anche da questo grave incidente nel 2001 in pista. Molti atleti paralimpici parlano di un prima e di un dopo. Anche per te è stato così? Si parla di una doppia vita?
R. - Fino ad un certo punto. Per me fortunatamente è la stessa che continua perché il pronostico non era certo a mio favore. Io ho passato più di 50 minuti con meno di un litro di sangue in corpo, ho avuto sette arresti cardiaci. L’unica conseguenza che ricordo di quel giorno è la perdita degli arti inferiori, che da un punto di vista scientifico, è assolutamente inspiegabile però a me va bene così. Non vivo questa mia vita come una nuova vita, come qualcosa di diverso. Indubbio è che quel giorno tutto quanto è saltato su un binario parallelo, che mi ha portato ad entrare in contatto con delle realtà che io non avrei mai conosciuto. So quello che ho trovato, e anche se potessi far marcia indietro, devo dire sinceramente mi gratterei la testa e ci penserei due volte. Apparisse un genio, che con una bacchetta magica mi potesse far riavere le gambe, forse accetterei, però lì per lì mi verrebbe da dire: “Ma come, io devo andare a Londra! Aspetta un attimo, fammi ragionare!”; è certamente una nuova occasione, non c’è dubbio.
D. - Tante volte si dice: “Dove non arriva la scienza, arriva la fede”...
R. - Sono credente. Mi rifiuto di pensare che noi tutti dipendiamo semplicemente da una fortunatissima combinazione chimica. Nei momenti in cui occorreva mettere a posto le cose, e darsi da fare, mi sono sempre tirato su le maniche ed ho sempre pensato che se dovevo mettere a posto la mia gamba, bastava una chiave a brugola da quattro millimetri e non serviva guardare in alto e chiedere a Dio un aiuto, perché, se proprio deve aiutare qualcuno, la lista è molto lunga. Ci sono molte persone che stanno molto peggio del sottoscritto.
D. - Quando le persone parlano di te evidenziano sempre la tua forza, il tuo sorriso. È un profilo che ti piace, nel quale ti ritrovi? e soprattutto, dopo i momenti di difficoltà che ci hai raccontato, cosa ti ha spinto a reagire così tanto e così bene?
R. - Mi fa molto piacere che la gente mi veda come un uomo positivo, sorridente, perché in realtà è un po’ quello che sono. Poi indubbiamente colpisce molto che una persona che è stata protagonista di una vicenda come la mia, abbia ancora voglia di farlo. Io ero sorridente prima, e lo sono ancora oggi. Con questo rispondo alla seconda parte della domanda: non è servita una reazione perché per quanto grave ciò che mi è accaduto, era comunque un episodio della mia vita. Poi il fatto che la gente oggi mi riconosca, probabilmente più di quello che merito, mi semplifica la vita. La gente si ferma per strada, mi riconosce, mi abbraccia, mi vuole bene. È una cosa che ti permette di vederti spalancate tante porte.
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