giovedì, agosto 02, 2012
La contesa legata ai giacimenti petroliferi ha bloccato riforme e sviluppo, mentre continua, nel silenzio mediatico, il genocidio sui Monti Nuba. Attesa per la mediazione dell'Unione africana 

 Città Nuova - Il tempo è scaduto: il 2 agosto è il termine fissato dalle Nazioni Unite e dall'Unione africana affinché Sudan e Sud Sudan giungano a un accordo sulle questioni cruciali che ancora li oppongono. In caso contrario, potrebbero scattare le sanzioni previste dalla risoluzione 2046 del Consiglio di sicurezza dell'Onu. Ad oltre un anno di distanza dall'indipendenza del Sud, avvenuta il 9 luglio 2011, ci sono infatti ancora diversi nodi da sciogliere. Il primo riguarda i diritti sul transito del petrolio: il 75 per cento delle riserve si trova nel Sud, ma poiché il progetto cinese di un oleodotto da Juba a Lamu (Kenya) non è andato – è il caso di dirlo – in porto, il nuovo Stato è costretto ad utilizzare i due già esistenti verso nord. Per quanto Juba abbia offerto a Khartoum 3 milioni di dollari a titolo di indennizzo per le perdite economiche in seguito all'indipendenza, e abbia alzato ad oltre 9 dollari a barile la proposta di tariffa di transito per il petrolio, la controparte chiede piuttosto una percentuale sul valore del greggio, in previsione di futuri aumenti.

La mancanza di un accordo in merito ha bloccato i negoziati anche sulle altre questioni in tavola: innanzitutto la disputa sui confini, poiché molti territori – peraltro ricchi di giacimenti – rimangono contesi. A farne le spese è la popolazione locale, vittima non solo delle violenze dei gruppi ribelli di entrambe le parti, ma spesso anche dell'esercito regolare: secondo le nostre fonti in loco, sui Monti Nuba il genocidio – di cui abbiamo già dato notizia in passato – non si è fermato. A questo si aggiunge l'incertezza sullo status giuridico dei sud sudanesi rimasti oltre la linea di confine: Juba non ha infatti ancora rilasciato i documenti per i propri cittadini all'estero, lasciandoli in un limbo legale che non consente loro di lavorare in Sudan né di avere diritti civili, oltre che metterli a rischio di espulsione.

 Intanto al Sud la popolazione – come afferma il blogger sud sudanese PaanLuel Wël – ha ben poche ragioni per festeggiare l'anno di indipendenza. In mancanza di accordi, Juba ha infatti interrotto da gennaio l'esportazione di petrolio, che costituisce il 98 per cento del Pil. Di conseguenza, «nel Paese non entrano più dollari – ci riferiscono le nostre fonti locali –, l'unica valuta che consente di andare a comprare cibo oltre il confine ugandese, dato che i mercati sono vuoti». Come se non bastasse, l'inflazione è schizzata all'80 per cento (maggio 2012), ed acquistare alimentari, carburante, ed altri generi di prima necessità è diventato quasi impossibile. Inoltre la corruzione interna al Paese rende difficile realizzare interventi efficaci nel campo delle infrastrutture, dell'istruzione e della sanità, tanto che secondo il Fondo per la popolazione delle Nazioni Unite vi si registra il tasso di mortalità materna più alto al mondo. Eppure, afferma PaanLuel Wël, «per quanto le aspettative della popolazione non siano state soddisfatte, la gente non rimpiange di aver votato per l'indipendenza. I Sud sudanesi sono grati di avere finalmente un proprio Stato».

 Non resta al momento che vedere se, nei negoziati in corso ad Addis Abeba, verrà raggiunto un accordo dell'ultimo minuto: il mediatore dell'Unione africana, Thabo Mbeki, deve infatti riferire al Consiglio di Sicurezza il 9 agosto.

Chiara Andreola

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