Si tenta di scongiurare il blocco dello stabilimento, mentre si prepara un piano di risanamento. Le cifre richieste sono altissime e la concorrenza internazionale è pronta a scalzare la nostra produzione
Città Nuova - Nel cuore dell’estate 2012 è esploso in tutte le sue contraddizioni Il caso dell’ Ilva di Taranto. L’inquinamento prodotto dal più grande stabilimento siderurgico europeo è noto da gran tempo e, prima o poi, era destinato ad emergere come conseguenza di un certo modo di intendere lo sviluppo che finisce per mettere in conflitto,in modo innaturale, il diritto alla salute con quello al lavoro. Non erano certo queste le intenzioni di chi, ad inizio anni Sessanta, ha programmato l’abbattimento di migliaia di alberi di ulivo per far nascere un imponente complesso industriale destinato ad inserire il Mezzogiorno in quel “miracolo economico” che richiedeva una elevata produzione di acciaio per l’attività manifatturiera legata alla crescita dei consumi e delle esportazioni. In questo senso si comprende la posizione del governo Monti che ha mandato i propri ministri in missione nella città pugliese per scongiurare il blocco dell’attività produttiva disposta in via precauzionale dall’attività istruttoria del giudice Patrizia Todisco della procura di Taranto.
La mole di dati epidemioliogici raccolti e di studi commissionati dal magistrato sono tali da contraddire le dichiarazioni rassicuranti emesse da diverse fonti ufficiali contro le denunce avanzate,da decenni, da movimenti e associazioni ambientaliste.
Negli ultimi mesi anche le aule parlamentari hanno ospitato convegni dedicati alla presenza della diossina nel latte materno delle donne taratine e la mortalità elevata, per tumori, emerge da diversi studi. A novembre del 2011, nel congresso annuale di Torino, l’associazione italiana di epidemiologia ha reso noti i risultati relativi a soli 44 siti inquinati in Italia, tra questi c’era anche quello di Taranto. La ricerca, che ha visto un lavoro di quattro anni svolto da diversi centri specializzati, coordinati dall’Istituto superiore di sanità, ha evidenziato un’emergenza nazionale che richiede ingenti risorse pubbliche per la bonifica e in un tempo di vacche magre, non è certo argomento prioritario.
Nel caso dell’acciaieria pugliese, secondo i rilievi della magistratura, necessitano interventi urgenti per adeguare gli impianti alla migliore tecnologia esistente a livello europeo. La precedente autorizzazione ambientale rilasciata nell’agosto del 2011 risulta così superata e al centro di ulteriori indagini di carattere penale per pressioni indebite esercitate nei confronti dei funzionari pubblici. Il gruppo Riva, che possiede il sito dal 1995, quando lo rilevò dal ministero delle partecipazioni statali, si è impegnato ad investire in un primo momento 90 milioni di euro per adempiere alle prescrizioni evidenziate dal dispositivo del giudice. Durante il vertice straordinario del 17 agosto con le autorità di governo nazionale e locale, la proprietà ha promesso l’investimento di ulteriori 56 milioni di euro, mentre la gran parte del costo, 336 milioni di euro, necessario per rientrare entro limiti di emissioni compatibili resta a carico della collettività uniti ad ipotizzati fondi dell’Unione europea.
L’obiettivo primario di queste misure è anche quello di evitare la paralisi dell’attività industriale che comporterebbe, secondo la Federacciai di Confindustria, un danno da più di 8 miliardi di euro con il rischio di dover dipendere totalmente dalle forniture estere e di consegnare 25mila lavoratori, tra diretti e indotto, alla disoccupazione. Basta come esempio quello di un colosso della siderurgia, l’Acelor Mittal, controllata da indiani e con sede in Lussemburgo che ha chiuso senza grandi remore gli altiforni in Spagna riducendo tutta l’attività in Europa, compresa quello del sito di Piombino. Resta aperta,quindi, la grande questione della concorrenza spietata tra grandi gruppi per contendersi le fasce di mercato della siderurgia, potendo spostare, senza opposizioni efficaci, investimenti e impianti sullo scacchiere mondiale alla ricerca della maggiore redditività, a prescindere dalle condizioni di lavoro e da quelle ambientali. Un gioco che non può durare a lungo.
Entro il 30 settembre il governo, evitando lo scontro con la magistratura davanti alla corte costituzionale, si è impegnato a far emettere una nuova autorizzazione ambientale che tenga conto dei rilievi e delle prescrizioni del giudice. Tempi brevi che sono altri da quelli di una profonda e riconversione ecologica che va ripensata senza cedimenti a soluzioni di corto respiro. La cronaca di questi giorni riporta, invece, il crescere delle divisioni di giudizio sul ruolo della magistratura accusata, da alcuni, di un certa rigidità che finirebbe per nuocere al destino della politica industriale nazionale.
Esistono tuttavia, proprio in questi tempi di crisi, sentenze di giudici italiani che antepongono la difesa della persona al profitto, come nel caso Eternit che non possono essere liquidate come “zavorra” per le imprese. La libera iniziativa economica non può svolgersi “in contrasto con l’utilità sociale o in modo di arrecare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana” e quindi vanno esplorate nuove soluzioni e nel caso Ilva va ricercata la “migliore tecnologia possibile” come indicano le direttive europee sulla siderurgia.
Carlo Cefaloni
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