mercoledì, agosto 01, 2012
Il 26 luglio, nel ventesimo anniversario della scomparsa di Rita Atria (giovanissima testimone di giustizia che ebbe il coraggio di sfidare la mafia), a Partanna i ragazzi di “Libera” hanno voluto ricordarne la memoria con una articolata manifestazione chiusa dalla messa solenne di don Luigi Ciotti e del vescovo della diocesi di Mazara del Vallo mons. Mogavero. E’ un bene che la Chiesa proponga come modello per le nuove generazioni una ragazza che, per quanto encomiabile nel coraggio dimostrato nel ribellarsi alla mafia, è morta suicida?

di Bartolo Salone

Tra gli effetti della scristianizzazione della società c’è forse il mutato approccio con cui la cultura moderna (o almeno parte di essa) si pone dinanzi alla tematica del suicidio. Quello che la tradizione cristiana da sempre bolla come grave crimine contro la vita comincia con la modernità ad essere riguardato con maggior indulgenza, in qualche caso perfino con ammirazione (diversi sono i combattenti per la libertà che anche di recente hanno inscenato il proprio suicidio in segno di protesta contro regimi sanguinari e dittatoriali). Talora il suicidio viene interpretato come un diritto o addirittura come un dovere morale, soprattutto quando a causa di gravi sofferenze e malattie il vivere si fa insopportabile. Il cristianesimo, invece, forse unico, condanna il suicidio senza se e senza ma, in ciò differenziandosi sia dalla cultura pagana - dove togliersi la vita, in alcune circostanze, poteva essere considerato addirittura un atto nobile – sia dalla cultura ebraica, che sul suicidio mantiene una posizione poco chiara.

Probabilmente non sarà un caso che Giuda, il traditore di Gesù, sia presentato come un suicida, essendo il suicidio, nell’ottica cristiana, il massimo della degradazione morale cui porta il peccato, addirittura un triplice male: rappresenta innanzitutto un difetto di fortezza morale, poiché il suicida è una persona che cede alla disperazione e alla sventura; costituisce un’ingiustizia, perché il suicida si giudica da sé e da solo si condanna, quando tale potere spetterebbe a Dio soltanto; è un’offesa a Dio e alla religione, poiché solo Dio è padrone della vita e della morte. Proprio per sottolineare la gravità del gesto e impedire che questo potesse essere preso ad esempio da altri, la Chiesa, fino a non molto tempo fa, ha negato i funerali ai morti suicidi. Con ciò la Chiesa non intendeva affatto sostituirsi al giudizio di Dio, ma semplicemente evitare che si innescassero processi di emulazione, essendo il suicidio – come l’esperienza dimostra – un male parecchio contagioso. Se però il suicidio era noto solo ai parenti e non vi era quindi motivo di scandalo, il funerale in chiesa poteva essere concesso.

Comunque il divieto di funerali in chiesa per i suicidi viene meno a partire dal 1983 col nuovo Codice di diritto canonico. Così facendo, la Chiesa ha inteso lanciare al mondo un messaggio di speranza, sottolineando come la misericordia di Dio non conosce limiti, neppure verso chi si sia macchiato dei peccati più gravi. Nessuna riabilitazione del suicidio in quanto tale, dunque, ma una riaffermazione della fede nell’amore sconfinato di Dio. Nessuno però a quel tempo ebbe la capacità di prevedere le conseguenze cui questa decisione avrebbe presto condotto, anche sul piano pastorale. Sempre più di frequente assistiamo, ad esempio, nelle nostre parrocchie e diocesi, a veglie o momenti di preghiera per onorare la memoria di chi si è tolto tragicamente la vita (specie se si tratta di ragazzi), momenti spesso organizzati per i giovani su iniziativa delle scuole o delle stesse famiglie. Molti sono quelli che giustamente si interrogano sul valore educativo di siffatte manifestazioni: il rischio è quello di presentare dei giovani suicidi ad altri giovani come fossero degli eroi, avallandosi così prassi pastorali che, a dispetto delle buone intenzioni, mettono in pericolo la stessa dottrina della Chiesa o, quantomeno, ne offrono un’immagine deformata proprio su una questione tanto delicata quale è appunto la sacralità della propria vita.

Nel solco di questa discutibile prassi pastorale mi pare si collochi anche la manifestazione organizzata qualche giorno fa a Partanna dall’associazione “Libera” con la collaborazione della diocesi di Mazara del Vallo per commemorare l’anniversario della morte di Rita Atria. Rita rappresenta per chi è impegnato nella lotta alla mafia una sorta di eroina: nata a Partanna in una famiglia mafiosa il 4 settembre 1974, ancora giovanissima, perse prima il padre all’età di 11 anni e, a distanza di qualche anno, anche il fratello per mano della mafia. In seguito a questi lutti, andando contro il volere della madre, decise di rompere il velo di omertà e, seguendo l’esempio della cognata, Piera Aiello, iniziò a collaborare con la giustizia in qualità di persona informata dei fatti, consegnando a Paolo Borsellino le sue confidenze. Morirà un anno dopo, il 26 luglio 1992, lanciandosi dalla finestra del sesto piano di un appartamento in via Amelia a Roma, dove viveva “nascosta” insieme alla cognata (entrambe ammesse al programma di protezione), qualche giorno dopo aver appreso della strage di via D’Amelio a Palermo, in cui – come è noto – perse la vita Paolo Borsellino, che per la nostra Rita era diventato ormai come un padre. Una storia tragica di una ragazza il cui sogno di riscatto venne mandato in frantumi dalla brutalità degli eventi di quegli anni difficili.

Per onorarne la memoria, oltre 300 giovani di “Libera”, nel ventesimo anniversario della scomparsa, si sono riuniti a Partanna lo scorso 26 luglio. La giornata è iniziata col raduno dei partecipanti per poi proseguire in corteo verso il cimitero comunale, dove Rita è sepolta. Nel tardo pomeriggio il vescovo della diocesi mazarese, mons. Domenico Mogavero, ha inteso onorare la memoria della ragazza, celebrando in suo ricordo una messa insieme col fondatore di “Libera”, don Luigi Ciotti. Le ragioni di questa solenne concelebrazione eucaristica non sono però del tutto comprensibili. Per il modo in cui terminò la sua esistenza terrena certo Rita Atria non può essere considerata un luminoso esempio di vita cristiana. Per quale motivo allora la Chiesa dovrebbe farne memoria in una celebrazione eucaristica? Non si corre così il rischio, seppur indirettamente, di proporre all’imitazione dei fedeli, e specialmente dei più giovani, un modello non genuino di vita cristiana? O, per questo nuovo modo di fare pastorale, i santi e gli “eroi civili” sono ormai la stessa cosa?

È presente 1 commento

raffaele ibba ha detto...

Vorrei notare che questo di Rita Atria NON È un suicidio, ma omicidio consapevole fatto per mano di chi era allora ministro della Giustizia e non sorresse in alcun modo le persone che collaboravano con Paolo Borsellino.
E non che non protesse Paolo Borsellino?
No. Perché è certo che Borsellino poteva essere protetto come invece non fu, ma la sua morte era nell'ordine delle probabilità ed i suoi testimoni, e specie quelli fragili come era chiaramente questa ragazza, andavano sostenuti oltre che protetti.
Questo mancato sostegno è omicidio attuato nella forma del suicidio.
Poi, sul resto e su tutta l'argomentazione, sono perfettamente d'accordo.
ciao
r

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