In Polonia, 1500 ragazzi, provenienti da tutta Europa, si sono dati appuntamento alla Terza Edizione dell’Incontro Internazionale “Giovani europei per un mondo senza violenza”, organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio. Ieri l’apertura dei lavori con le testimonianze dei sopravvissuti alla Shoah, oggi il pellegrinaggio ad Auschwitz, l’appello alla pace e l’incontro con l’arcivescovo di Cracovia, il cardinale Stanisław Dziwisz. Il nostro inviato Massimiliano Menichetti.
Radio Vaticana - “Le fiamme del crematorio furono spente, ma forse voi ne avete sentito ancora il calore, perché il razzismo, il male, l'odio bruciano ancora”. Sono le parole di Béla Varga, ebreo ungherese, sopravvissuto alla deportazione nazista, durante la Seconda Guerra mondiale. Testimone, ieri sera, davanti ad una sala gremita di giovani provenienti da tutta Europa, ha esortato a combattere ogni forma di violenza. Una sfida già raccolta oggi e che passa per l’ascolto dell’assordante silenzio del campo di sterminio di Auschwitz , nella preghiera, nella veglia e nell’incontro, questa sera, con l’arcivescovo di Cracovia, il cardinale Dziwisz, nel Santuario della Divina Misericordia, dove si trovano le reliquie di Santa Faustina Kowalska. Ieri l’apertura dei lavori della Terza edizione dell’Incontro Internazionale organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio presso il Teatro “La Rotonda” di Cracovia che è diventato un luogo della Memoria “Remember and to do everything. … Dovete ricordare e fare di tutto perché questo non accada di nuovo, ha sottolineato Tibi Zeep Ram, nato in Cecoslovacchia ora vive in Israele, aveva 13 anni, quando conobbe l’orrore di Auschwitz-Birkenau e poi quello di Bergen Belsen, dove un giorno prima della liberazione, ha visto morire anche il fratello. Toccante e agghiacciante la storia di Rita Prigmore, tedesca Sinti, vittima insieme alla gemella che non ce l’ha fatta, degli esperimenti di un allievo del dottor Mengele. Le sue lacrime hanno chiesto ai giovani di “non cedere mai all’intolleranza, all’odio”, ma di “costruire”. Storie di morte ma anche di rinascita che affermano la vita. Oggi il silenzio della Vistola che attraversa Cracovia, avvolta da una fitta nebbia quasi d’inverno, guarda questi 1500 ragazzi venuti da ogni parte d’Europa presentarsi davanti a quel cancello di morte con la scritta in tedesco “Il lavoro rende liberi”; ma oggi è proprio la speranza, irradiata anche da testimoni come Edith Stein e Massimiliano Maria Kolbe - che diede la vita propria ad Auschwitz per salvare un papà - ad abbracciare e guidare i cuori di questi ragazzi che tutti insieme lanceranno un appello al mondo intero, affinché si combatta con il dialogo e la pace ogni forma di violenza. Sul significato di questa terza edizione ascoltiamo, al microfono di Massimiliano Menichetti, don Marco Gnavi, parroco di Santa Maria in Trastevere e delegato del Vicariato di Roma per l’ecumenismo:
R. – E’ chiedere ai giovani, è aiutare i giovani di tutti questi Paesi europei, per lo più dai Paesi orientali, dove le tensioni sono fortissime e c’è anche nella crisi la tentazione di cercare nemici nei più deboli; è aiutare i giovani a sognare e a lavorare per un mondo diverso, incontrandosi con il cuore della storia europea, qui a Cracovia-Auschwitz, dove la shoa è un po’ rimossa, dove l’olocausto degli zingari è accanto a quello degli ebrei e dove la storia di tanti cristiani che hanno resistito al male con il bene, può insegnare qualcosa. Siamo, fra l’altro, sui passi di Giovanni Paolo e di Benedetto XVI: Benedetto XVI è venuto qui nel 2006. Quindi condividere con loro una visione dell’Europa carica di speranza: non vogliamo che l’Europa si congedi della storia, ma nemmeno i giovani si possono congedare dalla storia. La vita cristiana e la visione cristiana offre loro grandissime opportunità e un protagonismo buono e positivo. Già l’aver ascoltato testimonianze di grande spessore e di grande dolore e averlo fatto tra russi e polacchi, ungheresi e romani, e tra altre nazionalità che – a volte – sono conflittuali, ci dice che da cristiani si possono abbattere molte barriere ed essere realmente un sacramento di unità per la famiglia umana.
D. – La Polonia è singolare: è un Paese dilaniato dal comunismo, dal nazismo, ma è anche terra di grande testimonianza e di rinascita. Che cosa rappresenta questo entrare ad Auschwitz?
R. – Ascoltare nel silenzio la lezione della storia e ripartire con una coscienza di noi stessi non soltanto gravida di dolore, ma anche di speranza, perché le vittime di ieri e il silenzio di oggi ci chiede di riempire la vita non di parole vuole, ma di parole che abbiano un senso e quelle che hanno un senso sono quelle che costruiscono il bene di tutti, sono quelle che sanno trasmettere la speranza evangelica.
D. – Come a dire che è la speranza che, in realtà, muove il cuore dell’uomo: è un po’ così?
R. – Assolutamente sì. Ci sono anche lì, dove ha dominato la morte e l’orrore, storie di bellezza umana: la radice più vera dell’uomo è la vita, non è la morte.
D. – “La vita per la vita”: grande testimone di questo San Massimiliano Kolbe, che dà la vita, in quella cella in cui non riesce a stare né in piedi né seduto, per gli altri…
R. – Assolutamente Massimiliano Kolbe è un martire, un martire per la carità e della carità. Nel teatro di morte ha spezzato le tenebre con questa offerta di se stesso, salvando un padre di famiglia, salvando così la sua vita e quella della sua famiglia. Sicuramente è un esempio luminoso non solo per la Polonia, per tutti i cristiani: una bellezza che si offre a tutti noi come un dono immeritato e gratuito.
Radio Vaticana - “Le fiamme del crematorio furono spente, ma forse voi ne avete sentito ancora il calore, perché il razzismo, il male, l'odio bruciano ancora”. Sono le parole di Béla Varga, ebreo ungherese, sopravvissuto alla deportazione nazista, durante la Seconda Guerra mondiale. Testimone, ieri sera, davanti ad una sala gremita di giovani provenienti da tutta Europa, ha esortato a combattere ogni forma di violenza. Una sfida già raccolta oggi e che passa per l’ascolto dell’assordante silenzio del campo di sterminio di Auschwitz , nella preghiera, nella veglia e nell’incontro, questa sera, con l’arcivescovo di Cracovia, il cardinale Dziwisz, nel Santuario della Divina Misericordia, dove si trovano le reliquie di Santa Faustina Kowalska. Ieri l’apertura dei lavori della Terza edizione dell’Incontro Internazionale organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio presso il Teatro “La Rotonda” di Cracovia che è diventato un luogo della Memoria “Remember and to do everything. … Dovete ricordare e fare di tutto perché questo non accada di nuovo, ha sottolineato Tibi Zeep Ram, nato in Cecoslovacchia ora vive in Israele, aveva 13 anni, quando conobbe l’orrore di Auschwitz-Birkenau e poi quello di Bergen Belsen, dove un giorno prima della liberazione, ha visto morire anche il fratello. Toccante e agghiacciante la storia di Rita Prigmore, tedesca Sinti, vittima insieme alla gemella che non ce l’ha fatta, degli esperimenti di un allievo del dottor Mengele. Le sue lacrime hanno chiesto ai giovani di “non cedere mai all’intolleranza, all’odio”, ma di “costruire”. Storie di morte ma anche di rinascita che affermano la vita. Oggi il silenzio della Vistola che attraversa Cracovia, avvolta da una fitta nebbia quasi d’inverno, guarda questi 1500 ragazzi venuti da ogni parte d’Europa presentarsi davanti a quel cancello di morte con la scritta in tedesco “Il lavoro rende liberi”; ma oggi è proprio la speranza, irradiata anche da testimoni come Edith Stein e Massimiliano Maria Kolbe - che diede la vita propria ad Auschwitz per salvare un papà - ad abbracciare e guidare i cuori di questi ragazzi che tutti insieme lanceranno un appello al mondo intero, affinché si combatta con il dialogo e la pace ogni forma di violenza. Sul significato di questa terza edizione ascoltiamo, al microfono di Massimiliano Menichetti, don Marco Gnavi, parroco di Santa Maria in Trastevere e delegato del Vicariato di Roma per l’ecumenismo:
R. – E’ chiedere ai giovani, è aiutare i giovani di tutti questi Paesi europei, per lo più dai Paesi orientali, dove le tensioni sono fortissime e c’è anche nella crisi la tentazione di cercare nemici nei più deboli; è aiutare i giovani a sognare e a lavorare per un mondo diverso, incontrandosi con il cuore della storia europea, qui a Cracovia-Auschwitz, dove la shoa è un po’ rimossa, dove l’olocausto degli zingari è accanto a quello degli ebrei e dove la storia di tanti cristiani che hanno resistito al male con il bene, può insegnare qualcosa. Siamo, fra l’altro, sui passi di Giovanni Paolo e di Benedetto XVI: Benedetto XVI è venuto qui nel 2006. Quindi condividere con loro una visione dell’Europa carica di speranza: non vogliamo che l’Europa si congedi della storia, ma nemmeno i giovani si possono congedare dalla storia. La vita cristiana e la visione cristiana offre loro grandissime opportunità e un protagonismo buono e positivo. Già l’aver ascoltato testimonianze di grande spessore e di grande dolore e averlo fatto tra russi e polacchi, ungheresi e romani, e tra altre nazionalità che – a volte – sono conflittuali, ci dice che da cristiani si possono abbattere molte barriere ed essere realmente un sacramento di unità per la famiglia umana.
D. – La Polonia è singolare: è un Paese dilaniato dal comunismo, dal nazismo, ma è anche terra di grande testimonianza e di rinascita. Che cosa rappresenta questo entrare ad Auschwitz?
R. – Ascoltare nel silenzio la lezione della storia e ripartire con una coscienza di noi stessi non soltanto gravida di dolore, ma anche di speranza, perché le vittime di ieri e il silenzio di oggi ci chiede di riempire la vita non di parole vuole, ma di parole che abbiano un senso e quelle che hanno un senso sono quelle che costruiscono il bene di tutti, sono quelle che sanno trasmettere la speranza evangelica.
D. – Come a dire che è la speranza che, in realtà, muove il cuore dell’uomo: è un po’ così?
R. – Assolutamente sì. Ci sono anche lì, dove ha dominato la morte e l’orrore, storie di bellezza umana: la radice più vera dell’uomo è la vita, non è la morte.
D. – “La vita per la vita”: grande testimone di questo San Massimiliano Kolbe, che dà la vita, in quella cella in cui non riesce a stare né in piedi né seduto, per gli altri…
R. – Assolutamente Massimiliano Kolbe è un martire, un martire per la carità e della carità. Nel teatro di morte ha spezzato le tenebre con questa offerta di se stesso, salvando un padre di famiglia, salvando così la sua vita e quella della sua famiglia. Sicuramente è un esempio luminoso non solo per la Polonia, per tutti i cristiani: una bellezza che si offre a tutti noi come un dono immeritato e gratuito.
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