Da una parte le inutili polemiche sulla decisione di rifiutare l’accanimento terapeutico e dall’altra l’ultima importante intervista con padre Sporschill: personalità singolare, da sempre uomo del dialogo, il cardinal Martini continua ad interrogarci, anche da morto, sul futuro della Chiesa. Una “Chiesa indietro di 200 anni”, come l’ha polemicamente definita nel suo testamento spirituale, ma per la quale vale la pena spendersi e lottare.
Venerdì 31 agosto il cardinal Martini lasciava questo mondo per salire al cielo. Il Parkinson che da tempo lo affliggeva evolveva al suo stadio terminale, privandolo finanche della capacità di deglutire. Fedele all’insegnamento della Chiesa, rifiutava ogni forma di accanimento terapeutico, accettando con fiducia l’approssimarsi della morte, ormai inevitabile. La sua scomparsa – come era prevedibile – ha sollecitato parecchie riflessioni sia in ambito cattolico che presso il mondo laico, prestando in qualche caso il fianco a futili polemiche e strumentalizzazioni. Ad esempio, la scelta di non sottoporsi all’alimentazione forzata negli ultimi giorni di vita ha suggerito a qualcuno impropri accostamenti con il caso Welby o Englaro: l’idea che si è cercato strumentalmente di veicolare è che l’alimentazione e l’idratazione artificiali costituiscano sempre e comunque accanimento terapeutico, mentre in realtà lo sono soltanto in determinati casi, e precisamente allorché la malattia, giunta alla fase terminale, non consente più l’utile assorbimento delle sostanze alimentari. Né Piergiorgio Welby né Eluana Englaro erano invece malati terminali quando fu deciso di togliere loro i presidi sanitari essenziali alla sopravvivenza, pertanto in quei casi non si trattò di rifiuto di accanimento terapeutico ma di vera e propria eutanasia. E’ bene non giocare con le parole quando si affrontano tematiche così delicate.
Ben più serie riflessioni suscita l’ultima intervista rilasciata l’8 agosto da Martini al padre gesuita Georg Sporschill (che curò anche il fortunato libro-intervista “Conversazioni notturne a Gerusalemme”) e pubblicata sul Corriere della Sera immediatamente dopo la morte. L’intervista si occupa della situazione della Chiesa in Occidente; l’analisi compiuta dal cardinale non è delle più rassicuranti: dalle sue parole emerge il volto di una Chiesa stanca, invecchiata, oppressa da una burocrazia ipertrofica e asfittica, incapace di reinventarsi, di proporsi come guida alle nuove generazioni. Una Chiesa, quella europea, incapace di librarsi sulle ali dello Spirito e di ispirare modelli di santità, come lo sono stati nell’America Latina il vescovo Romero e i martiri gesuiti di El Salvador. Una visione a tinte fosche insomma, forse eccessivamente negativa – anche da noi non mancano luminosi esempi di santità, come l’eroico don Pino Puglisi, ormai prossimo alla beatificazione - eppure per molti aspetti veritiera.
Questa la diagnosi: ma quale la cura? Per prima cosa Martini suggerisce la via delle riforme, da affidare nella Chiesa a uomini “fuori dalle righe”, ardenti di spirito cristiano, vicini ai poveri e con grande presa presso i giovani, uomini capaci di “sperimentare” cose nuove. Quali dovrebbero essere queste riforme ci viene detto subito dopo, quando vengono spiegate le “tre vie” che, secondo il Cardinale, dovrebbe percorrere la Chiesa in futuro, ossia la via della conversione, dei sacramenti e della Parola di Dio. Prima di entrare più nel dettaglio, mi pare vada fatta una considerazione di carattere più generale: le strutture della Chiesa possono essere certamente riformate, ma la crisi attuale della Chiesa in Europa parrebbe essere più una crisi di fede che una crisi di “struttura”. Dal Concilio Vaticano II ad oggi – ha osservato con sano realismo qualcuno – la Chiesa le ha provate tutte: mai come nell’ultimo cinquantennio nella Chiesa sono state attuate tante riforme sul piano della pastorale e della liturgia. Eppure alle riforme non sono seguiti i risultati auspicati: siamo sicuri allora che il problema nella Chiesa stia tutto nello stile comunicativo e nelle riforme ancora da attuare? O dobbiamo pensare piuttosto che il problema stia al di fuori della Chiesa e precisamente nella radicale secolarizzazione dell’occidente, che rende le nuove generazioni così refrattarie alla proposta di fede?
Tanto premesso, veniamo alle “vie” lungo le quali la Chiesa dovrebbe incamminarsi per uscire dalla sua paralisi. Prima via, la conversione: ma, si badi bene, il cardinal Martini qui non parla della conversione individuale necessaria ad ogni cristiano, bensì della conversione a livello ecclesiale, una conversione che dovrebbe perciò coinvolgere la Chiesa nei suoi uomini (si accenna allo scandalo della pedofilia), nelle sue manifestazioni e perfino – sembrerebbe di capire – nel suo insegnamento (soprattutto per quel che attiene alla morale sessuale). Si chiede il Cardinale se la Chiesa sia ancora una autorità in materia sessuale o se sia divenuta solo una caricatura dei media. Eppure – verrebbe anche da dire – la Chiesa nel 2000 a chi si dovrebbe convertire, ai media e alla mentalità corrente o a Gesù Cristo?
Veniamo così alla seconda via: l’interiorità dell’uomo nutrita dalla Parola di Dio. Nessun cambiamento è infatti possibile se non si torna alle fonti della fede; da qui la necessità di riscoprire la Parola di Dio, ascoltarla e meditarla nel proprio cuore. Inutile aggiungere, anche solo per inciso, che noi cattolici da questo punto di vista siamo molto carenti, essendo il nostro rapporto con le Sacre Scritture di quasi ignoranza, se non di indifferenza.
Terza via: i sacramenti. Questi, ci ammonisce Martini, non sono uno strumento di disciplina ma “un aiuto per gli uomini nei momenti del cammino e nelle debolezze della vita”. Per questo dai sacramenti non dovrebbero essere esclusi coloro i quali vivono in situazioni di crisi e di disagio, anche familiare: sì dunque alla comunione per i divorziati risposati. Secondo il cardinale, “la domanda se i divorziati possano fare la comunione dovrebbe essere capovolta. Come può la Chiesa arrivare in aiuto con la forza dei sacramenti a chi ha situazioni familiari complesse?”. D’altro canto, però, si potrebbe obiettare: come può accedere alla comunione sacramentale chi versa in stato di peccato mortale, pubblico e permanente? La ragione per cui la Chiesa non consente la comunione ai divorziati risposati (o conviventi) sta tutta qui, non certo nella volontà di allontanare o emarginare chi versa in situazioni familiari complesse. L’esigenza di conversione, del resto, non vale anche per queste persone? O si può seriamente pensare che la grazia sacramentale operi di per sé a prescindere da un cammino serio di conversione e di ravvedimento?
Queste, in definitiva, le questioni poste sul tappeto. Molti, sia dentro che fuori la Chiesa, applaudiranno alle parole di Martini; altri invece si porranno su posizioni più distaccate o di marcata critica. Di una cosa però non è consentito dubitare: l’amore di questo nostro stimato fratello per la Chiesa di Cristo, pur con i suoi limiti e i suoi difetti, come emerge dalle sue parola a conclusione dell’intervista “Dio è amore. Io ho ancora una domanda per te: che cosa puoi fare tu per la Chiesa?”.
di Bartolo Salone
Venerdì 31 agosto il cardinal Martini lasciava questo mondo per salire al cielo. Il Parkinson che da tempo lo affliggeva evolveva al suo stadio terminale, privandolo finanche della capacità di deglutire. Fedele all’insegnamento della Chiesa, rifiutava ogni forma di accanimento terapeutico, accettando con fiducia l’approssimarsi della morte, ormai inevitabile. La sua scomparsa – come era prevedibile – ha sollecitato parecchie riflessioni sia in ambito cattolico che presso il mondo laico, prestando in qualche caso il fianco a futili polemiche e strumentalizzazioni. Ad esempio, la scelta di non sottoporsi all’alimentazione forzata negli ultimi giorni di vita ha suggerito a qualcuno impropri accostamenti con il caso Welby o Englaro: l’idea che si è cercato strumentalmente di veicolare è che l’alimentazione e l’idratazione artificiali costituiscano sempre e comunque accanimento terapeutico, mentre in realtà lo sono soltanto in determinati casi, e precisamente allorché la malattia, giunta alla fase terminale, non consente più l’utile assorbimento delle sostanze alimentari. Né Piergiorgio Welby né Eluana Englaro erano invece malati terminali quando fu deciso di togliere loro i presidi sanitari essenziali alla sopravvivenza, pertanto in quei casi non si trattò di rifiuto di accanimento terapeutico ma di vera e propria eutanasia. E’ bene non giocare con le parole quando si affrontano tematiche così delicate.
Ben più serie riflessioni suscita l’ultima intervista rilasciata l’8 agosto da Martini al padre gesuita Georg Sporschill (che curò anche il fortunato libro-intervista “Conversazioni notturne a Gerusalemme”) e pubblicata sul Corriere della Sera immediatamente dopo la morte. L’intervista si occupa della situazione della Chiesa in Occidente; l’analisi compiuta dal cardinale non è delle più rassicuranti: dalle sue parole emerge il volto di una Chiesa stanca, invecchiata, oppressa da una burocrazia ipertrofica e asfittica, incapace di reinventarsi, di proporsi come guida alle nuove generazioni. Una Chiesa, quella europea, incapace di librarsi sulle ali dello Spirito e di ispirare modelli di santità, come lo sono stati nell’America Latina il vescovo Romero e i martiri gesuiti di El Salvador. Una visione a tinte fosche insomma, forse eccessivamente negativa – anche da noi non mancano luminosi esempi di santità, come l’eroico don Pino Puglisi, ormai prossimo alla beatificazione - eppure per molti aspetti veritiera.
Questa la diagnosi: ma quale la cura? Per prima cosa Martini suggerisce la via delle riforme, da affidare nella Chiesa a uomini “fuori dalle righe”, ardenti di spirito cristiano, vicini ai poveri e con grande presa presso i giovani, uomini capaci di “sperimentare” cose nuove. Quali dovrebbero essere queste riforme ci viene detto subito dopo, quando vengono spiegate le “tre vie” che, secondo il Cardinale, dovrebbe percorrere la Chiesa in futuro, ossia la via della conversione, dei sacramenti e della Parola di Dio. Prima di entrare più nel dettaglio, mi pare vada fatta una considerazione di carattere più generale: le strutture della Chiesa possono essere certamente riformate, ma la crisi attuale della Chiesa in Europa parrebbe essere più una crisi di fede che una crisi di “struttura”. Dal Concilio Vaticano II ad oggi – ha osservato con sano realismo qualcuno – la Chiesa le ha provate tutte: mai come nell’ultimo cinquantennio nella Chiesa sono state attuate tante riforme sul piano della pastorale e della liturgia. Eppure alle riforme non sono seguiti i risultati auspicati: siamo sicuri allora che il problema nella Chiesa stia tutto nello stile comunicativo e nelle riforme ancora da attuare? O dobbiamo pensare piuttosto che il problema stia al di fuori della Chiesa e precisamente nella radicale secolarizzazione dell’occidente, che rende le nuove generazioni così refrattarie alla proposta di fede?
Tanto premesso, veniamo alle “vie” lungo le quali la Chiesa dovrebbe incamminarsi per uscire dalla sua paralisi. Prima via, la conversione: ma, si badi bene, il cardinal Martini qui non parla della conversione individuale necessaria ad ogni cristiano, bensì della conversione a livello ecclesiale, una conversione che dovrebbe perciò coinvolgere la Chiesa nei suoi uomini (si accenna allo scandalo della pedofilia), nelle sue manifestazioni e perfino – sembrerebbe di capire – nel suo insegnamento (soprattutto per quel che attiene alla morale sessuale). Si chiede il Cardinale se la Chiesa sia ancora una autorità in materia sessuale o se sia divenuta solo una caricatura dei media. Eppure – verrebbe anche da dire – la Chiesa nel 2000 a chi si dovrebbe convertire, ai media e alla mentalità corrente o a Gesù Cristo?
Veniamo così alla seconda via: l’interiorità dell’uomo nutrita dalla Parola di Dio. Nessun cambiamento è infatti possibile se non si torna alle fonti della fede; da qui la necessità di riscoprire la Parola di Dio, ascoltarla e meditarla nel proprio cuore. Inutile aggiungere, anche solo per inciso, che noi cattolici da questo punto di vista siamo molto carenti, essendo il nostro rapporto con le Sacre Scritture di quasi ignoranza, se non di indifferenza.
Terza via: i sacramenti. Questi, ci ammonisce Martini, non sono uno strumento di disciplina ma “un aiuto per gli uomini nei momenti del cammino e nelle debolezze della vita”. Per questo dai sacramenti non dovrebbero essere esclusi coloro i quali vivono in situazioni di crisi e di disagio, anche familiare: sì dunque alla comunione per i divorziati risposati. Secondo il cardinale, “la domanda se i divorziati possano fare la comunione dovrebbe essere capovolta. Come può la Chiesa arrivare in aiuto con la forza dei sacramenti a chi ha situazioni familiari complesse?”. D’altro canto, però, si potrebbe obiettare: come può accedere alla comunione sacramentale chi versa in stato di peccato mortale, pubblico e permanente? La ragione per cui la Chiesa non consente la comunione ai divorziati risposati (o conviventi) sta tutta qui, non certo nella volontà di allontanare o emarginare chi versa in situazioni familiari complesse. L’esigenza di conversione, del resto, non vale anche per queste persone? O si può seriamente pensare che la grazia sacramentale operi di per sé a prescindere da un cammino serio di conversione e di ravvedimento?
Queste, in definitiva, le questioni poste sul tappeto. Molti, sia dentro che fuori la Chiesa, applaudiranno alle parole di Martini; altri invece si porranno su posizioni più distaccate o di marcata critica. Di una cosa però non è consentito dubitare: l’amore di questo nostro stimato fratello per la Chiesa di Cristo, pur con i suoi limiti e i suoi difetti, come emerge dalle sue parola a conclusione dell’intervista “Dio è amore. Io ho ancora una domanda per te: che cosa puoi fare tu per la Chiesa?”.
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