martedì, settembre 18, 2012
Il procuratore aggiunto di Palermo Teresi denuncia il dibattito avvelenato 

Liberainformazione - La situazione è estremamente complessa, per certi versi drammatica ma forse non è seria, visto che la maggior parte degli organi di informazione non la descrivono in modo serio, cioè veritiero. La Procura della Repubblica di Palermo e quella di Caltanissetta stanno facendo un lavoro straordinario per la ricostruzione di quelle vicende. Le attività di indagine sono ad un punto cruciale. A Palermo sono stati raccolti elementi di prova estremamente significativi per proporre al giudice una ipotesi accusatoria compiuta, nei confronti di 12 persone, che a vario titolo hanno contribuito a saldare ed a fare apparire convergenti gli interessi dello Stato con quelli della mafia.

Sia chiaro che l’ipotesi accusatoria non contempla come fattispecie di reato la “trattativa” in sé, ma l’attività deviante di alcuni vertici dei Carabinieri, che con il beneplacito di personeggi posti al di sopra delle gerarchie militari, hanno cercato una interlocuzione con i capi dell’organizzazione mafiosa dell’epoca, al fine di indurre lo Stato a concedere benefici alla mafia per interrompere la campagna di eliminazione di quei personaggi politici che la mafia considerava traditori e che era iniziata con l’omicidio di Salvo Lima. La trattativa (nella attuale ipotesi accusatoria) non è stata intavolata per far cessare le stragi, in quanto essa è iniziata prima e tendeva ad evitare che altri politici ritenuti non più affidabili fossero abbattuti.

Alcuni di questi politici si sarebbero attivati in prima persona per convincere i responsabili politici competenti nei vari settori, ad accogliere le richieste dei mafiosi. Quindi l’ipotesi accusatoria si potrebbe rappresentare atecnicamente come un ricatto portato contro lo Stato da un manipolo di ufficiali dell’arma, da politici e dai mafiosi. Non esiste, allo stato degli atti, una connessione certa tra la trattativa e le stragi di Capaci e di Via D’Amelio, anche se probabilmente le stesse sono state in qualche modo utilizzate per rafforzare “il potere contrattuale” di chi voleva indurre lo Stato alla resa, ed a piegarsi alle richieste (inaccettabili) che erano state avanzate.

L’esistenza della trattativa è ormai accertata da sentenze, anche passate in giudicato, emesse dalle Corti di Firenze, in alcuni dei processi riguardanti le stragi del 1993, (Firenze, Roma e Milano). Ciò a dispetto delle inutili e stucchevoli giravolte di moltissimi organi di stampa che continuano a definirla solo “presunta”. Poiché tra i nomi degli imputati compaiono persone di primissimo piano nel panorama politico, militare, mafioso, è di tutta evidenza che le indagini e le loro conclusioni hanno attratto in modo particolare l’attenzione degli organi di informazione, e poi della politica. Sarebbe del tutto normale se il dibattito che si è scatenato intorno alla vicenda, si fosse mantenuto in normali canali di valutazione, critica, con atteggiamenti di turbamento, di scetticismo, di forte contrapposizione o di favore, adesione, speranza. Ma invece da due mesi a questa parte assistiamo a qualcosa di diverso. L’incredulità e lo scetticismo per ipotesi accusatorie tanto gravi e dirompenti, hanno lasciato il posto, talora, al dileggio, agli attacchi personali, ad una sorta di guerra – unilateralmente combattuta ma non dichiarata - al punto che la critica si è spostata dal merito della inchiesta alle persone che l’hanno condotta e la conducono tuttora.

Sembra che coloro che non credono (legittimamente) alla fondatezza delle accuse non trovino o non siano interessati a trovare argomenti che contrastino il contenuto delle accuse (delle quali sembra non importare a nessuno) ma soltanto a dipingere come visionari e sovversivi quei magistrati che l’anno imbastita. Quindi il dibattito è avvelenato, falsato dai bersagli immaginari che si sono voluti costruire, per distogliere l’attenzione dall’unico vero obiettivo, che è quello di fornire una informazione il più completa possibile sul merito di quei comportamenti e sulla loro effettiva rilevanza penale, sugli elementi su cui si basa l’ipotesi accusatoria. Dai commenti registrati in questa bollente estate sembra che un numero cospicuo di rappresentanti politici, di commentatori, di giuristi, vogliano far dimenticare il processo che si celebrerà, per indurre gli ascoltatori, i lettori, gli spettatori, ad assumere un atteggiamento “contro”. Contro i magistrati, contro l’idea stessa che una verità così scottante possa essere oggetto di un procedimento penale; contro i magistrati che hanno osato solo supporre che tali comportamenti siano stati effettivamente posti in essere; alla tirata delle somme contro la “giustizia”, come libera espressione di un potere indipendente dello Stato, che non può violare santuari, che non può processare singoli rappresentati del potere, perché ciò significa processare il “potere” stesso, quindi la libertà politica delle Istituzioni.

Se dovesse passare l’idea che mettere sotto processo un politico equivale a processare la politica, si arriverebbe ad un punto di gravissima distonia istituzionale, nel quale l’azione giudiziaria verrebbe svuotata dei suoi contenuti fondamentali. O si accetta l’idea che tutti possono essere sottoposti a processo, per fatti precisi e circoscritti se essi costituiscono ipotesi di reato, in ossequio ai principi di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e dell’obbligatorietà dell’azione penale, oppure si precipita nella barbarie. Purtroppo l’aspro dibattito di queste settimane sembra – in parte – favorire queste posizioni estreme.

Un ulteriore elemento di forte preoccupazione che mi sento di dovere manifestare, consiste nelle recenti polemiche legate alla apparente contrapposizione che si è creata tra il Quirinale e l’Ufficio della Procura di Palermo, a seguito del conflitto di attribuzione sollevato dal primo sulla questione delle telefonate tra l’ex Senatore Mancino ed il Presidente della Repubblica. I dettagli della vicenda sono ormai arci noti, quindi non mi ci soffermerò; ribadisco che a mio avviso si tratta di una contrapposizione apparente, nel senso che l’esito del conflitto, demandato alla Corte Costituzionale, non sposterebbe di un millimetro gli esiti o anche solo il fisiologico andamento delle indagini e l’iter processuale già in corso. Se, infatti, la Corte Costituzionale dovesse ritenere che quelle conversazioni telefoniche vadano distrutte a mezzo di una procedura speciale, senza il contraddittorio delle parti, riconoscendo al Presidente della Repubblica la inviolabilità ed inascoltabilità assoluta delle sue conversazioni, ciò sarà fatto senza che l’indagine, il processo, le udienze, l’esito giudiziario abbiano in alcun modo a soffrirne. Quindi il Presidente della Repubblica, sollevando il conflitto non ha affatto posto in essere alcun comportamento che possa essere inteso come ostacolo alla indagine ed ai suoi sviluppi processuali.

D’altro canto lo stesso Presidente Napolitano ha già speso pubblicamente parole forti nel senso della necessità di giungere ad una verità processuale sulle vicende delle stragi e su ciò che ci stava intorno; ed i magistrati della Procura della Repubblica di Palermo si sono sentiti fortemente sostenuti da quelle parole. Se ciò è vero mi pare fuori dubbio non solo che il procedimento debba andare avanti speditamente e nel pieno rispetto delle leggi che lo regolano, ma anche che si è voluto costruire a tavolino questo inesistente contrasto per creare, ancora una volta, un mezzo di distrazione di massa utile a far dimenticare o comunque a porre in secondo piano il merito del processo, per incentrare l’attenzione sulle presunte violazioni poste in essere dai Pubblici Ministeri palermitani che avrebbero violato le prerogative presidenziali.

Per finire credo che oggi ci troviamo in una condizione molto simile a quella della seconda metà degli anni ’80, ed ancora a quella della fine degli anni ’90, quando si sarebbe potuto, con lo sforzo collettivo ed armonico di tutte le componenti istituzionali e con il contributo dei mezzi di informazione liberi ed indipendenti, giungere alla definitiva sconfitta della mafia, sia della componente militare sia di quella politica. Ma gli sforzi sono stati di segno opposto, anziché contribuire alla battaglia decisiva mettendo nel mirino lo Stato-mafia, si scelse di prendere di mira i magistrati e quelle occasioni di vittoria svanirono. La mafia si rafforzò, le alleanze istituzionali si consolidarono, l’espansione economica, imprenditoriale, finanziaria di cosa nostra si riaffermarono come e più di prima. Oggi siamo forse allo stesso punto, si potrebbe dare allo Stato-mafia il colpo definitivo per la sua sconfitta, ma le sue forze interne resistono e se non si trova una via di comune e convergente cammino, anche questa occasione potrebbe andare persa, per sempre, la magistratura ha fatto e continua a fare la sua parte, faranno lo stesso le altre componenti istituzionali per affermare definitivamente la sovranità dello Stato-Stato?

* Vittorio Teresi, procuratore aggiunto di Palermo e segretario dell'Associazione nazionale magistrati di Palermo.


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