Trasgredisco oggi ad una delle invero più trasgredite regole del galateo accademico, quella dell'autocitazione.
GreenReport - Scrivevo nell'aprile 2010 su questo giornale: "La vera questione è quella antica del rapporto tra interessi importanti (ma pur sempre individuali) ed interessi collettivi. ‘Fabbrica Italia' può limitarsi ad essere una visione aziendale senza diventare visione collettiva? Un progetto aziendale senza diventare progetto politico?"
Nella fiera delle ipocrisie di allora e di quelle che oggi accompagnano l'annuncio di Sergio Marchionne sull'obsolescenza del progetto "Fabbrica Italia", consola poco che già allora alcuni di noi dicessero che si trattava di una missione impossibile.
Impossibile era che un'iniziativa di un'impresa potesse assurgere a politica di un Paese, che pure ha aspirato (e dice di continuare ad aspirare) ad essere considerato tra le grandi potenze industriali del pianeta. E non solo per i pur rilevantissimi motivi di scala (dato che la Fiat, per quanto grande, non coincide con l'apparato produttivo italiano e - come platealmente dimostrano le dichiarazioni di Della Valle - ne ha palesemente perso la leadership morale) e nemmeno per quelli di legittimazione (restando noi affezionati all'idea che le scelte collettive sul futuro di una comunità richiedano, anche per essere efficaci, almeno un briciolo di democrazia).
In un Paese avanzato ed in società complesse ed aperte al globale un progetto di crescita richiede il convergere di sforzi e volontà di una moltitudine di attori, che non sono gestibili e nemmeno suscitabili da una singola impresa, tanto più se questa impresa è divenuta oggi una vera e propria multinazionale.
L'ipocrisia e/o la dabbenaggine del gran dibattito di queste ore sono figlie delle ipocrisie e delle dabbenaggini di allora, ma vi si aggiunge un elemento ulteriore di vera o falsa ingenuità. Fiat è ora, più di ieri, un'impresa multinazionale, non più un'impresa italiana. La lealtà territoriale delle imprese multinazionali è sempre - a dir poco - sfuggente, degna dell'araba fenice del Metastasio. Questo vale anche quando nello stesso nome dell'impresa due lettere su quattro, richiamano il legame ad un Paese e ad una città. Spostiamo lo sguardo un poco più a nord in Europa e riflettiamo sull'estrema problematicità del rapporto tra Nokia e la Finlandia, che, ancora più di quello tra Fiat e Italia, realizzava una sovrapposizione quasi perfetta di identità e strategie individuali e collettive.
Altro è invece ragionare su quanto saggia sia la politica aziendale della Fiat nell'allentare così clamorosamente i propri legami con il Paese d'origine e con l'immagine e la cultura di stile e tecnologia, che il mondo (e il mercato) ancora ci riconosce. Immagine e cultura che, nell'ipotesi dell'ingresso di un nuovo produttore (giustamente evocata da Massimo Mucchetti sul Corriere della Sera), cesserebbe di essere monopolio del nostro (ormai ex) campione nazionale.
Quanto alle politiche nazionali, paradossalmente l'Italia guardi a Torino, dove da molti anni una delle migliori elite politiche ed imprenditoriali del nostro Paese sta costruendo un destino diverso, con determinazione e con successo, che guarda oltre la Fiat e fondato su università, nuove tecnologie, nuove imprese, nuovi settori, cultura, turismo.
Impossibile era che un'iniziativa di un'impresa potesse assurgere a politica di un Paese, che pure ha aspirato (e dice di continuare ad aspirare) ad essere considerato tra le grandi potenze industriali del pianeta. E non solo per i pur rilevantissimi motivi di scala (dato che la Fiat, per quanto grande, non coincide con l'apparato produttivo italiano e - come platealmente dimostrano le dichiarazioni di Della Valle - ne ha palesemente perso la leadership morale) e nemmeno per quelli di legittimazione (restando noi affezionati all'idea che le scelte collettive sul futuro di una comunità richiedano, anche per essere efficaci, almeno un briciolo di democrazia).
In un Paese avanzato ed in società complesse ed aperte al globale un progetto di crescita richiede il convergere di sforzi e volontà di una moltitudine di attori, che non sono gestibili e nemmeno suscitabili da una singola impresa, tanto più se questa impresa è divenuta oggi una vera e propria multinazionale.
L'ipocrisia e/o la dabbenaggine del gran dibattito di queste ore sono figlie delle ipocrisie e delle dabbenaggini di allora, ma vi si aggiunge un elemento ulteriore di vera o falsa ingenuità. Fiat è ora, più di ieri, un'impresa multinazionale, non più un'impresa italiana. La lealtà territoriale delle imprese multinazionali è sempre - a dir poco - sfuggente, degna dell'araba fenice del Metastasio. Questo vale anche quando nello stesso nome dell'impresa due lettere su quattro, richiamano il legame ad un Paese e ad una città. Spostiamo lo sguardo un poco più a nord in Europa e riflettiamo sull'estrema problematicità del rapporto tra Nokia e la Finlandia, che, ancora più di quello tra Fiat e Italia, realizzava una sovrapposizione quasi perfetta di identità e strategie individuali e collettive.
Altro è invece ragionare su quanto saggia sia la politica aziendale della Fiat nell'allentare così clamorosamente i propri legami con il Paese d'origine e con l'immagine e la cultura di stile e tecnologia, che il mondo (e il mercato) ancora ci riconosce. Immagine e cultura che, nell'ipotesi dell'ingresso di un nuovo produttore (giustamente evocata da Massimo Mucchetti sul Corriere della Sera), cesserebbe di essere monopolio del nostro (ormai ex) campione nazionale.
Quanto alle politiche nazionali, paradossalmente l'Italia guardi a Torino, dove da molti anni una delle migliori elite politiche ed imprenditoriali del nostro Paese sta costruendo un destino diverso, con determinazione e con successo, che guarda oltre la Fiat e fondato su università, nuove tecnologie, nuove imprese, nuovi settori, cultura, turismo.
Nicola Bellini
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