lunedì, settembre 24, 2012
A un mese dalla morte proponiamo il ricordo di Armando Torno, editorialista culturale del "Corriere della Sera", con cui il cardinale si incontrava per la pagina da lui curata sull'edizione domenicale del quotidiano. 

Città Nuova - Cosa le ha dato l’amicizia con il cardinal Martini? «Mi ha dato più di quanto io sia riuscito a dargli. Grazie al direttore Ferruccio De Bortoli ho potuto offrirgli di tenere una rubrica domenicale sul Corriere della Sera. È stata tenuta per tre anni esatti, da giugno 2009 a giugno 2012. Questa pagina è stata l’ultimo pulpito, l’ultimo confessionale, l’ultima scrivania. Da lui si imparava anche con un gesto, un silenzio, uno sguardo. Da quando faceva fatica a parlare, una sola parola era eloquente come un lungo discorso. Mi ha anche insegnato a leggere la Bibbia non solo con la testa e la ragione, ma anche con il cuore, per capire cosa suggeriva personalmente. Era un grande biblista ed è stato il solo cattolico ammesso nel comitato scientifico del Greek New Testament, testo poi utilizzato nella XXVI e XXVII edizione del Nestle-Aland, che è il riferimento per le traduzioni condotte in tutto il mondo. Inoltre è stato il primo ad avere indagato il papiro Bodmer 14, indispensabile per intendere una parte del Nuovo Testamento. È la persona che si era ritirata a Gerusalemme per studiare i testi biblici e ora, con questa corrispondenza, si rivolgeva a persone che non avevano mai letto le Sacre Scritture. Nel giugno scorso è venuto, in forma privata, alla riunione di redazione, dicendo che avrebbe smesso di collaborare perché avvertiva la morte in modo concreto. È stato un grande, che mentre stava morendo insegnava a vivere. Era una persona che voleva dare tutto sé stesso e aveva messo tutto in gioco per Cristo. Viveva quello che diceva ant’Agostino: “Ama e fa ciò che vuoi”».

L’affetto popolare deriva anche dal fatto che la gente lo ha avvertito come un uomo in dialogo con tutti. «Il cardinal Martini era parte di quella piccola percentuale che nella Chiesa riesce a far sentire una presenza che è infinita. Ad alcune lettere rispondeva sul giornale, ad altre lettere più delicate, come persone che intendevano uccidersi, rispondeva privatamente. Altre persone, anche le più semplici, le ha ricevute. Ad una ragazza ventenne che gli ha scritto una lettera straziante, ha risposto di andare a trovarlo».

Nell’ultimo periodo non riusciva più a scrivere… «Riceveva anche 2 mila lettere ed email a settimana da giovani, anziani, atei e credenti: non aveva paura dei mezzi di comunicazione ma li voleva usare bene. Grazie a questi mezzi, computer, iPad, iPhone non è rimasto isolato quando non è riuscito più a scrivere. Aveva un polso della realtà straordinario grazie ai social network. Ha fatto il cardinale anche usando questi mezzi, era sempre sé stesso».

In che contesto storico nasce la sua prima lettera pastorale, “Il lembo del mantello”, rivolta ai comunicatori? «Negli anni Novanta si poneva un’urgenza: la tivù commerciale aveva superato e oscurato quella pubblica che cessava di essere un servizio e diventava un concorrente in gara con il privato secondo il meccanismo degli ascolti, dell’audience. Nell’ambito della Chiesa c’era un atteggiamento di prudenza verso la tivù, che era ancora vista come uno strumento negativo e non controllabile. Per questo sono nate le prime iniziative cattoliche come Tele Nova. Il cardinal Martini pensò di intervenire in questo fenomeno che si stava formando e definendo. Un fenomeno tutt’altro che chiaro, di cui voleva cogliere gli aspetti positivi per rinnovare l’approccio alla comunicazione all’interno della Chiesa».

Nella lettera pastorale viene citata anche una frase di Pier Paolo Pasolini che diceva che «è stata la televisione che ha concluso l’era della pietà e ha iniziato l’era del piacere». «Per preparare “Il lembo del mantello” il cardinal Martini convocò molti esperti del mondo della comunicazione, mons. Gianfranco Ravasi, Aldo Grasso, Beniamino Placido, Umberto Eco e persino me, che allora ero responsabile dell’inserto cultura de Il Sole 24 ore, anche se non ero un esperto di comunicazione. Andai perché avevo un buon rapporto con tutti. Fu una sera in cui ci ritrovammo a casa del cardinale che prese appunti dalle 18.00 in poi su tutto quanto avevamo da dire. Pier Paolo Pasolini venne citato da Benimino Placido, che lo aveva conosciuto e sapeva valutare gli aspetti profetici del suo pensiero. Il "Lembo del mantello" nacque, dunque, dal dialogo con degli esperti di comunicazione che venivano traslati su un nuovo bisogno della comunità dei fedeli per vederne il positivo. Sono gli stessi anni in cui Chiara Lubich apriva alla comunicazione dicendo che era importante saper usare tutti gli strumenti e saper comunicare. Sono stati, insieme al cardinal Martini e altri, figure che non hanno avuto paura della comunicazione e hanno tentato di usarla per diffondere il positivo. La Chiesa aveva in un primo tempo controllato la Rai tramite la Dc, partito di maggioranza relativa di allora, e si era cercato di avere uno sguardo attento alla moralità: certe parole non potevano essere pronunciate, alcune immagini non potevano essere rappresentate. Ma con le tivù commerciali si era arrivati a un punto di non ritorno, si era entrati in un vicolo cieco. La concorrenza aveva favorito le situazioni più "sbracate" e discutibili per via delle leggi di mercato. Martini se ne accorse e tutto nacque anche da questi fatti».

Quando e in che senso una notizia, una trasmissione, un film possono diventare “Il lembo del mantello” e metterci in comunicazione con l’assoluto? «È stato un modo di veder le cose del cardinale che riteneva la realtà, i piccoli e i grandi problemi, le cose di ogni giorno, parte di un ordine che ci avvolge tutti. Ogni volta che c’è un problema risolto, facciamo un sorriso, portiamo una testimonianza, e questo non rimane un fatto isolato. La pensava così. Lo stesso è nella comunicazione. Un gioco a premi, un talk show, un telefilm, così come i film che arrivano sugli schermi, lasciano una traccia in ognuno di noi. Allora serve che queste tracce non rimangano isolate ma possano essere ricondotte ad una serie di princìpi, di interazioni positive, ad una educazione. Con alcune serie tivù, per esempio, passano idee come l’eutanasia. E sia il credente che il non credente devono imparare ad avere uno sguardo vigile, perché in gioco non c'è solo uno spettacolo, ma importanti questioni morali e le nostre idee su di esse. La tivù non è più solo intrattenimento e non più solo uno spazio libero del tempo occupato, ma è anche un fatto formativo. Bisognava guardare la tivù con occhio critico».

Che tipo di comunicatore emerge dagli scritti di Martini, da “Il lembo del mantello” a “Effatà” a “I cinque talenti”? «È un comunicatore che non ha paura di confrontarsi, che non ha paura di dare spazio anche alle idee altrui. Quello che il comunicatore deve fare è quello che ha già fatto il fedele alla “cattedra per i non credenti”, quello che ha fatto la Chiesa con l’ecumenismo nel Concilio Vaticano II, o quello che farà l’umanità cercando di dialogare. Il comunicatore per Martini ha un ruolo importante perché è quello che trasmette determinate nozioni essenziali ,che diventano opinione e influenzano le masse. Per esempio non è che Martini avesse voluto, come qualcuno ha frainteso dopo la sua morte, credere negli atei e lasciare spazio agli atei. Non è questo il punto, egli ha voluto capire le ragioni di chi non crede, per potere capire meglio le ragioni del credere. Dentro di noi ‒ diceva Martini ‒ c’è un ateo potenziale. È quell’ateo potenziale che dobbiamo vincere, non è un pericolo che viene dall’esterno. Il pericolo di non credere in Dio e di fare tutto da soli viene dal nostro interno. Il comunicatore non deve aver paura di confrontarsi, ma deve riuscire a dare, attraverso la sua coscienza, qualcosa di costruttivo. Altrimenti se facciamo una comunicazione che fa perdere tempo alla gente, che disorienta e disinforma, allora abbiamo fallito».

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