domenica, settembre 16, 2012
La morte dell’ambasciatore Usa in Libia e le proteste attorno alle ambasciate fanno riflettere sui risultati della cosiddetta “rivoluzione araba”. Mentre il papa è in Libano

Città Nuova - L'assassinio dell'ambasciatore statunitense a Tripoli, Craig Stevens, uomo di dialogo a modo suo, profondo conoscitore della situazione mediorientale, e le susseguenti violente proteste attorno alle ambasciate statunitensi di Teheran, Il Cairo, Sana’a, Kartoum, Tunisi e altre ancora, pone interrogativi inquietanti sul destino delle cosiddette “primavere arabe”, che gli osservatori più attenti ormai da tempo chiamano “transizioni arabe”. Sulle rivolte scoppiate quasi due anni fa in Tunisia prima, poi in Egitto e in altri Paesi dello scacchiere mediorientale erano state riposte da noi occidentali troppe speranze non fondate, illusioni direi, soprattutto per superficialità e mancanza di conoscenza reale del mondo arabo e musulmano.

Intendiamoci bene: le manifestazioni di Avenue Bourguiba e di Piazza Tahrir non hanno cessato di portare i loro effetti; anzi, è stata superata una soglia di non ritorno verso una ridefinizione del mondo arabo e delle relazioni tra Occidente e mondo musulmano. I giovani che hanno dato vita spontaneamente alle rivolte, peraltro totalmente inattese, hanno mostrato che i gravi problemi del potere, della libertà e della laicità nei loro Paesi, per tanti decenni sottaciuti, hanno bisogno di risposte adeguate da maturare all’interno del mondo arabo e musulmano.

La rivoluzione digitale ha sostenuto queste rivolte, rendendole possibili e amplificandole a dismisura: al Cairo, ad esempio, ho incontrato due blogger, uno di loro aveva 13 anni, che in pochi giorni hanno coagulato attorno ai loro post milioni di persone! Ma non bastano twitter e facebook a spiegare quanto è successo: la sete di libertà delle popolazioni arabe, dopo decenni di dittature più o meno soft e di corruzioni dilaganti, non può più essere fermata. Ma serviranno anni, o piuttosto decenni, per arrivare ad un equilibrio politico e sociale soddisfacente.

Senza poi dimenticare che ogni situazione è particolare, che ogni primavera ha le sue caratteristiche peculiari: la società tunisina pare ad esempio essere stata più influenzata dall'Europa, facendosi trovare in qualche modo più aperta ai metodi democratici europei e alle modalità di espressione della libertà da noi più usuali, mentre in Egitto la fortissima presenza dei Fratelli musulmani e lo stato di profonda ignoranza di larga parte della popolazione (circa il 50 per cento di analfabetismo!) ha influenzato altrimenti le rivolte. In Bahrein, dove mi sono recato nel gennaio scorso, la rivolta ha avuto ed ha connotati diversi: la povera maggioranza sciita vuole accedere in qualche modo al potere, nelle mani della ricca minoranza sunnita. Mentre in Siria la lotta ha connotati assolutamente unici, per al presenza di un dittatore alawita di seconda generazione che s'appoggia sull'Iran sciita, ma anche sull'appoggio dell'8 per cento di cristiani, oltre che dei drusi e di altre fazioni sunnite. Per non parlare della situazione dello Yemen, Paese in cui la presenza diffusa di fazioni terroristiche è drammatica. Quindi attenzione a voler parlare di “rivoluzione araba” senza fare le giuste distinzioni: ci sono tante “rivoluzioni arabe” quanti sono i Paesi in cui sono scoppiate.

Dopo l’attentato di Bengasi bisogna chiedersi ancora una volta se l'atteggiamento occidentale abbia favorito la canalizzazione delle energie espresse nelle rivoluzioni arabe verso una maggior libertà; o se, al contrario, abbia favorito nei fatti il rafforzamento delle tendenze più radicali e retrive. Cosa sono stati capaci di fare i governi statunitense ed europei di fronte al dilagare della protesta? Poca cosa. Hanno saputo lanciare una sporca e prematura guerra in Libia contro Gheddafi, e aprirne un'altra ancora più sporca (e lunga) contro Assad; sono stati alla finestra in Egitto (salvo Obama col suo discorso appena insediato al Cairo), appoggiando in qualche modo i Fratelli musulmani per convenienza e non certo per convinzione; hanno lasciato nei fatti ad una società civile volenterosa ma non fornita di mezzi adeguati la tessitura di relazioni con i giovani delle rivoluzioni; ma hanno, questo sì, varato provvedimenti molto rigorosi contro l'immigrazione clandestina dai Paesi del Nord-Africa. Nei fatti, quindi, noi occidentali non abbiamo voluto o potuto appoggiare con mezzi pacifici le spinte verso la libertà emerse nelle piazze della rivoluzione.

Come mai è successo tutto ciò? Ritengo che l'atteggiamento occidentale sia stato minato alla base da un vulnus originario: l'idea di poter finalmente esportare la democrazia, cioè il nostro modo di vivere in società. Ma l'impossibilità di realizzare questo progetto è apparsa evidente già nella seconda guerra d'Iraq: le armi non portano con sé la democrazia. La democrazia nasce dal popolo, non dall’imposizione. La scelta di intervenire prima a Kabul e poi a Baghdad con enormi spiegamenti di forze militari non è risultata vincente, come dimostra l’attuale grande difficoltà a ritirarsi da questi territori lasciando una situazione più o meno pacificata. Detto in altro modo, noi occidentali continuiamo ad avvicinarci a questi Paesi convinti che le nostre società siano molto più avanzate delle loro e che quindi sarebbero i popoli arabi e musulmani a doverci imitare nell'organizzazione di una nuova convivenza civile, mentre noi non avremmo nulla da imparare da loro. Lo spirito colonialista, ammettiamolo, non ci ha ancora abbandonato. Le popolazioni arabe avvertono molto chiaramente quest’atteggiamento colonialista (o piuttosto paternalista), anche se i più giovani capiscono che certe conquiste della libertà vanno perseguite e manifestano forti simpatie per il mondo occidentale.

Le popolazioni arabe, profondamente religiose, combattono quest'atteggiamento occidentale con le armi a disposizione, soprattutto coltivando un loro “orgoglio arabo”, basato essenzialmente su un ritorno alla religione islamica originaria, ancor prima della grande apertura imposta dalla scuola di Baghdad, nel XII e XII secolo. Il ritorno alla shari'a, alla legge islamica originaria, non è altro che un segno di questa tendenza, che ha visto nei wahhabiti e nei salafiti poi i maggiori esponenti. È in qualche modo una sfida quella che i musulmani arabi rivolgono all'Europa cristiana: voi avete eliminato Dio dalla vita civile e sociale, relegando la religione nel foro interiore. Ebbene, noi vi diciamo invece che Dio deve tornare ad essere il centro di tutta la vita dell'uomo, personale e soprattutto sociale. Mi sembra che qualcosa di istruttivo esista in questa reazione, al di là delle forme talvolta scomposte o addirittura violente della protesta.

Una riflessione a parte meriterebbe il problema annoso del terrorismo e di al Qaeda in particolare. Sembra ormai evidente come, dopo l'11 settembre 2001, lo sforzo principale dei Paesi occidentali contro il morbo del terrorismo sia stato di natura militare. Armi sempre più sofisticate ed eserciti sempre più addestrati sono stati fatti scendere in campo, sperando di tagliare la testa al terrorismo. Certo, Bin Laden è stato ammazzato, ma al Qaeda vive, eccome, in forme sempre più diversificate e inafferrabili, e soprattutto con una diffusione geografica impensabile prima dell'intervento in Afghanistan. Pensiamo solo alla situazione nel Nord del Mali, dove al Qaeda in nome del jihad, della guerra santa, è diventata una società per delinquere di taglieggiatori e di narcotrafficanti in combutta con i cartelli centroamericani! Non servono certo i droni e i tank a combattere il terrorismo! Senza poi affrontare la grave questione dell’origine e della natura di al Qaeda, società segreta finanziata dagli occidentali alla sua nascita e sfuggita ben presto di mano al controllo delle intelligence dei nostri Paesi. Il terrorismo è diventato il cancro, con innumerevoli metastasi, di una società che si sente assediata e che reagisce irrazionalmente: prova ne sia il fatto che nelle società arabe in qualche modo c'è attualmente bisogno di una frangia estrema, radicale, che canalizzi tutte queste tensioni sociali: non appena l'Occidente ha sdoganato i Fratelli musulmani, scendendo a patti con loro perché non c'era altro da fare, ecco che ora emerge prepotentemente la fazione salafita, che dall'Egitto alla Tunisia sta acquistando rapidamente di importanza e visibilità.

In questo contesto inquietante, ma nel contempo molto mobile e quindi influenzabile, il papa va in Libano. I cristiani in effetti sono estremamente esposti alle violenze e ai soprusi, perché presi in mezzo alla guerra tra sunniti e sciiti, perché relegati ai margini delle società mediorientali, perché accusati di aver appoggiato i dittatori di turno, perché costretti in gran parte ad emigrare per sopravvivere... La situazione è indubbiamente drammatica, come viene denunciato da tanti giornalisti e studiosi. In questi ultimi anni, per Città Nuova abbiamo mantenuto un filo diretto con diversi vescovi delle zone più calde del mondo arabo, a cominciare dall'Iraq per passare alla Libia ed ora alla Siria. Ebbene, questi autorevoli esponenti delle comunità cristiane, prima dello scoppio delle singole guerre, hanno manifestato con forza la loro preoccupazione per gli sviluppi possibili delle vicende belliche: in effetti sotto i rispettivi dittatori le comunità cristiane potevano vivere in relativa libertà, praticare i culti in sicurezza, mantenere un livello economico sufficiente. La guerra avrebbe rotto gli equilibri, aprendo scenari inquietanti. Come puntualmente è avvenuto. I vescovi, quindi, invocavano sì maggiori libertà e la fine delle dittature, ma senza rompere l'equilibrio sociale esistente. Le armi erano per loro strumenti incapaci di operare una serena transizione.

I fatti hanno detto che avevano ragione: la via verso una maggiore libertà deve essere verificata e ritenuta praticabile, prima di imboccarla! Il futuro di queste comunità ora è estremamente incerto: va certamente sostenuto dai cristiani del mondo intero, ma va anche accompagnato da una politica occidentale d'inclusione e non d'esclusione, che capisca come il mondo arabo e musulmano in genere abbia bisogno di trovare la sua propria via alla libertà, senza costrizioni dettate dal potere dell'Occidente. Solo così i cristiani potranno rimanere liberi in questi Paesi, solo così si potrà avviare un new deal tra mondo arabo e mondo occidentale, e sperare nella fine del terrorismo e in una pace duratura.

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