Bene il disegno di legge italiano contro il consumo di suolo, anche se era meglio un decreto
GreenReport - Il drammatico quadro della perdurante crisi economico e finanziaria spinge i governi verso ulteriori deregolamentazioni in campo ambientale. Tanto per cambiare le problematiche ambientali, più che mai in un momento di crisi, sono ancora una volta considerate come un lusso che non ci si può permettere. La cultura economica opera ancora in un'ottica culturale che resta permeata dal mito dell'incremento della crescita materiale e quantitativa e che continua a ignorare la centralità del capitale naturale e la finitezza biofisica delle capacità rigenerative e ricettive dei sistemi naturali della nostra meravigliosa Terra.
La nuova impostazione economica che cerca di far comprendere l'importanza della tutela e dell'investimento nel capitale naturale come basi fondamentali e imprescindibili per il nostro benessere e per lo sviluppo equo e sostenibile delle società umane ( genericamente definita come Green Economy) sta, lentamente, ma sempre di più penetrando, in tanti settori importanti e autorevoli dell'establishment politico ed economico.
Anche in Italia ci sembra di poter vedere qualche piccolo barlume in questo senso: Il governo Monti che non ha mai esplicitamente dichiarato come asset fondamentale della nostra economia la straordinaria natura del Bel Paese, ha finalmente varato un disegno di legge (non un decreto legge, come invece avviene sempre per tutti gli impegni di tipo economico) in materia di valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del consumo del suolo che costituisce uno dei gravissimi problemi ambientali dell'Italia.
La proposta è stata presentata dal ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali, Mario Catania, e, finalmente, si sono letti articoli e dichiarazioni sulla stampa, anche del premier del governo su questo tema fondamentale per il nostro futuro.
Nel provvedimento vi sono diverse spunti interessanti, come hanno indicato le associazioni ambientaliste quali il Wwf, relativi all'individuazione di un tetto alla "estensione massima di superficie agricola edificabile", all'abrogazione della disposizione che consente ai Comuni di coprire le spese correnti con gli introiti derivanti dal pagamento degli oneri di urbanizzazione; e al vincolo decennale di destinazione d'uso peri terreni agricoli, che abbiano ricevuto aiuti comunitari e statali.
E' inutile dire che ci auspichiamo tutti che il Parlamento agevoli e acceleri in ogni modo, anche attraverso la riunione delle competenti Commissioni in sede deliberante, l'approvazione della odierna proposta entro la scadenza della Legislatura che si sta avvicinando rapidamente.
Il tema del drammatico consumo del suolo e del Land Use Change, cioè dei cambiamenti che hanno luogo sui suoli di tutto il mondo (basti pensare alle deforestazioni, alle industrializzazioni, alle infrastrutturazioni, allo sprawling urbano ecc.) costituiscono uno dei più gravi problemi che incombono sul nostro immediato futuro.
Il Land Use Change costituisce anche uno dei cosidetti Planetary Boundaries, i confini planetari che non dovrebbero essere sorpassati oltre un certo limite, per evitare situazioni di effetti a cascata totalmente ingovernabili da parte delle società umane.
Non è un caso che proprio recentemente, nel giugno scorso, poco prima della Conferenza delle Nazioni Unite sullo Sviluppo Sostenibile di Rio de Janeiro, la prestigiosa rivista "Nature" ha pubblicato un lavoro interessantissimo curato da 22 scienziati di fama internazionale dal titolo "Approaching a state shift in Earth's biosphere" ( Barnosky A. D. et al., pubblicato su Nature, Vol. 486, No. 7402, June 6, 2012).
In questo lavoro gli studiosi fanno presente che ciò che conosciamo da decenni di ricerche sulla dinamica dei sistemi naturali, ci ha portati a comprendere come diversi ecosistemi quando sono forzati e profondamente perturbati, possono attraversare una soglia critica e possono transitare, in maniera repentina e spesso irreversibile, da uno stato ad un altro, perdendo resistenza e resilienza.
Oggi, come ricordano gli autori di questo assessment che fa un po' il punto delle conoscenze acquisite sinora su questo argomento, cominciamo ad avere le evidenze scientifiche che l'ecosistema globale, la nostra meravigliosa biosfera dalla quale dipende la nostra stessa esistenza, può reagire in modi similari avvicinandosi ad una transizione critica a livello planetario, come risultato degli effetti complessivi e di ampie dimensioni, esercitati dalla pressione umana.
Gli scienziati oggi ritengono perciò plausibile il raggiungimento di un punto critico (Tipping Point) su scala planetaria, basato proprio sull'entità delle profonde modificazioni che stanno subendo i sistemi naturali attraverso le trasformazioni che stanno subendo i suoli e gli ambienti di tutto il mondo.
Questa considerazione richiede una grande attenzione da parte di noi tutti ed una raffinata capacità scientifica di registrare i primi segnali di allerta che preludono ad un passaggio di transizione critica su scala globale, per essere capaci di individuare i feedback che possono essere in grado di promuovere questa transizione.
Ed è per questo necessario, come richiedono gli studiosi in questa bella pubblicazione apparsa su "Nature", agire sulle cause che sono alla radice del perché e del come gli esseri umani stanno forzando i cambiamenti biologici planetari.
Barnosky e gli altri ricordano quindi l'importanza di agire per ridurre la popolazione mondiale, per ridurre il consumo pro capite delle risorse, per ridurre l'utilizzo di combustibili fossili, per rafforzare l'efficienza energetica, per incrementare l'efficienza della produzione e distribuzione del cibo e per rafforzare le azioni di gestione e conservazione della biodiversità e dei servizi degli ecosistemi, sia negli ambienti terrestri che marini, cercando di mantenere il più possibile salvaguardate le parti della superficie terrestre ancora non dominate dall'intervento umano.
Il lavoro di Barnosky e degli altri 21 studiosi sottolinea come gli studi sulle dinamiche degli ecosistemi a piccola scala dimostrano infatti che percentuali che vanno da almeno il 50% fino al 90% delle aree stesse risultano alterate e che interi ecosistemi stanno già sorpassando punti critici che li conducono in stati differenti da quelli originali.
A scala più ampia i ricercatori fanno presente che per sostenere una popolazione di più di 7 miliardi di abitanti, ormai il 43% della superficie delle terre emerse è già stato convertito ad agricoltura, infrastrutture, aree urbane e profonde modificazioni di tanti ecosistemi e con i sistemi stradali che attraversano molto altro di ciò che resta. La crescita della popolazione, prevista di 9 miliardi al 2045, fa ipotizzare uno scenario nel quale almeno metà delle terre emerse saranno profondamente disturbate e modificate già entro il 2025. Questo aspetto viene ritenuto dagli studiosi un profondo disturbo che è molto vicino a rappresentare il verificarsi di un punto critico su scala planetaria.
Recenti studi che ho ricordato diverse volte nelle pagine di questa rubrica, ci hanno fornito il quadro della trasformazione fisica dei biomi terrestri dovuti all'intervento umano dal 1700 al 2000. Ne risulta che nel 1700, più della metà dell'intera biosfera si trovava in condizioni selvatiche, mentre il 45% era in uno stato seminaturale, con modeste trasformazioni del suolo, dovute all'agricoltura e agli insediamenti umani. Nel 2000 invece la maggioranza della biosfera è interessata da aree agricole ed altri biomi, ormai definiti antropogenici, meno del 20% si trova in uno stato seminaturale e solo un quarto può essere considerato in una situazione selvatica. L'ecologo Erle Ellis ha coniato, da vari anni, appunto il termine Anthropogenic Biomes, biomi antropogenici, per indicare i biomi della Terra che devono essere riclassificati proprio per considerare adeguatamente l'invasiva presenza umana (vedi il sito di Ellis www.ecotope.org). Ormai le ricerche di chi studia le trasformazioni prodotte dall'intervento umano ci presentano dei biomi profondamente alterati rispetto alla loro struttura originale ed una complessiva, straordinaria modificazione della superficie del pianeta stesso, tanto che le forme vegetazionali presenti originariamente nei diversi biomi sono molto spesso raramente riscontrabili. Queste ricerche confermano quello che diversi studiosi avevano pubblicato nel 2002 relativamente alla mappa dell'"impronta umana" sul pianeta (il gruppo di Eric Sanderson della Wildlife Conservation Society). Un'impronta che, rispetto agli indicatori presi in considerazione dallo studio, ha trasformato fisicamente le terre emerse almeno fino all'83% dell'intera loro superficie. La politica non può più agire ed andare avanti senza avere consapevolezza di queste conoscenze. Gianfranco Bologna
GreenReport - Il drammatico quadro della perdurante crisi economico e finanziaria spinge i governi verso ulteriori deregolamentazioni in campo ambientale. Tanto per cambiare le problematiche ambientali, più che mai in un momento di crisi, sono ancora una volta considerate come un lusso che non ci si può permettere. La cultura economica opera ancora in un'ottica culturale che resta permeata dal mito dell'incremento della crescita materiale e quantitativa e che continua a ignorare la centralità del capitale naturale e la finitezza biofisica delle capacità rigenerative e ricettive dei sistemi naturali della nostra meravigliosa Terra.
La nuova impostazione economica che cerca di far comprendere l'importanza della tutela e dell'investimento nel capitale naturale come basi fondamentali e imprescindibili per il nostro benessere e per lo sviluppo equo e sostenibile delle società umane ( genericamente definita come Green Economy) sta, lentamente, ma sempre di più penetrando, in tanti settori importanti e autorevoli dell'establishment politico ed economico.
Anche in Italia ci sembra di poter vedere qualche piccolo barlume in questo senso: Il governo Monti che non ha mai esplicitamente dichiarato come asset fondamentale della nostra economia la straordinaria natura del Bel Paese, ha finalmente varato un disegno di legge (non un decreto legge, come invece avviene sempre per tutti gli impegni di tipo economico) in materia di valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del consumo del suolo che costituisce uno dei gravissimi problemi ambientali dell'Italia.
La proposta è stata presentata dal ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali, Mario Catania, e, finalmente, si sono letti articoli e dichiarazioni sulla stampa, anche del premier del governo su questo tema fondamentale per il nostro futuro.
Nel provvedimento vi sono diverse spunti interessanti, come hanno indicato le associazioni ambientaliste quali il Wwf, relativi all'individuazione di un tetto alla "estensione massima di superficie agricola edificabile", all'abrogazione della disposizione che consente ai Comuni di coprire le spese correnti con gli introiti derivanti dal pagamento degli oneri di urbanizzazione; e al vincolo decennale di destinazione d'uso peri terreni agricoli, che abbiano ricevuto aiuti comunitari e statali.
E' inutile dire che ci auspichiamo tutti che il Parlamento agevoli e acceleri in ogni modo, anche attraverso la riunione delle competenti Commissioni in sede deliberante, l'approvazione della odierna proposta entro la scadenza della Legislatura che si sta avvicinando rapidamente.
Il tema del drammatico consumo del suolo e del Land Use Change, cioè dei cambiamenti che hanno luogo sui suoli di tutto il mondo (basti pensare alle deforestazioni, alle industrializzazioni, alle infrastrutturazioni, allo sprawling urbano ecc.) costituiscono uno dei più gravi problemi che incombono sul nostro immediato futuro.
Il Land Use Change costituisce anche uno dei cosidetti Planetary Boundaries, i confini planetari che non dovrebbero essere sorpassati oltre un certo limite, per evitare situazioni di effetti a cascata totalmente ingovernabili da parte delle società umane.
Non è un caso che proprio recentemente, nel giugno scorso, poco prima della Conferenza delle Nazioni Unite sullo Sviluppo Sostenibile di Rio de Janeiro, la prestigiosa rivista "Nature" ha pubblicato un lavoro interessantissimo curato da 22 scienziati di fama internazionale dal titolo "Approaching a state shift in Earth's biosphere" ( Barnosky A. D. et al., pubblicato su Nature, Vol. 486, No. 7402, June 6, 2012).
In questo lavoro gli studiosi fanno presente che ciò che conosciamo da decenni di ricerche sulla dinamica dei sistemi naturali, ci ha portati a comprendere come diversi ecosistemi quando sono forzati e profondamente perturbati, possono attraversare una soglia critica e possono transitare, in maniera repentina e spesso irreversibile, da uno stato ad un altro, perdendo resistenza e resilienza.
Oggi, come ricordano gli autori di questo assessment che fa un po' il punto delle conoscenze acquisite sinora su questo argomento, cominciamo ad avere le evidenze scientifiche che l'ecosistema globale, la nostra meravigliosa biosfera dalla quale dipende la nostra stessa esistenza, può reagire in modi similari avvicinandosi ad una transizione critica a livello planetario, come risultato degli effetti complessivi e di ampie dimensioni, esercitati dalla pressione umana.
Gli scienziati oggi ritengono perciò plausibile il raggiungimento di un punto critico (Tipping Point) su scala planetaria, basato proprio sull'entità delle profonde modificazioni che stanno subendo i sistemi naturali attraverso le trasformazioni che stanno subendo i suoli e gli ambienti di tutto il mondo.
Questa considerazione richiede una grande attenzione da parte di noi tutti ed una raffinata capacità scientifica di registrare i primi segnali di allerta che preludono ad un passaggio di transizione critica su scala globale, per essere capaci di individuare i feedback che possono essere in grado di promuovere questa transizione.
Ed è per questo necessario, come richiedono gli studiosi in questa bella pubblicazione apparsa su "Nature", agire sulle cause che sono alla radice del perché e del come gli esseri umani stanno forzando i cambiamenti biologici planetari.
Barnosky e gli altri ricordano quindi l'importanza di agire per ridurre la popolazione mondiale, per ridurre il consumo pro capite delle risorse, per ridurre l'utilizzo di combustibili fossili, per rafforzare l'efficienza energetica, per incrementare l'efficienza della produzione e distribuzione del cibo e per rafforzare le azioni di gestione e conservazione della biodiversità e dei servizi degli ecosistemi, sia negli ambienti terrestri che marini, cercando di mantenere il più possibile salvaguardate le parti della superficie terrestre ancora non dominate dall'intervento umano.
Il lavoro di Barnosky e degli altri 21 studiosi sottolinea come gli studi sulle dinamiche degli ecosistemi a piccola scala dimostrano infatti che percentuali che vanno da almeno il 50% fino al 90% delle aree stesse risultano alterate e che interi ecosistemi stanno già sorpassando punti critici che li conducono in stati differenti da quelli originali.
A scala più ampia i ricercatori fanno presente che per sostenere una popolazione di più di 7 miliardi di abitanti, ormai il 43% della superficie delle terre emerse è già stato convertito ad agricoltura, infrastrutture, aree urbane e profonde modificazioni di tanti ecosistemi e con i sistemi stradali che attraversano molto altro di ciò che resta. La crescita della popolazione, prevista di 9 miliardi al 2045, fa ipotizzare uno scenario nel quale almeno metà delle terre emerse saranno profondamente disturbate e modificate già entro il 2025. Questo aspetto viene ritenuto dagli studiosi un profondo disturbo che è molto vicino a rappresentare il verificarsi di un punto critico su scala planetaria.
Recenti studi che ho ricordato diverse volte nelle pagine di questa rubrica, ci hanno fornito il quadro della trasformazione fisica dei biomi terrestri dovuti all'intervento umano dal 1700 al 2000. Ne risulta che nel 1700, più della metà dell'intera biosfera si trovava in condizioni selvatiche, mentre il 45% era in uno stato seminaturale, con modeste trasformazioni del suolo, dovute all'agricoltura e agli insediamenti umani. Nel 2000 invece la maggioranza della biosfera è interessata da aree agricole ed altri biomi, ormai definiti antropogenici, meno del 20% si trova in uno stato seminaturale e solo un quarto può essere considerato in una situazione selvatica. L'ecologo Erle Ellis ha coniato, da vari anni, appunto il termine Anthropogenic Biomes, biomi antropogenici, per indicare i biomi della Terra che devono essere riclassificati proprio per considerare adeguatamente l'invasiva presenza umana (vedi il sito di Ellis www.ecotope.org). Ormai le ricerche di chi studia le trasformazioni prodotte dall'intervento umano ci presentano dei biomi profondamente alterati rispetto alla loro struttura originale ed una complessiva, straordinaria modificazione della superficie del pianeta stesso, tanto che le forme vegetazionali presenti originariamente nei diversi biomi sono molto spesso raramente riscontrabili. Queste ricerche confermano quello che diversi studiosi avevano pubblicato nel 2002 relativamente alla mappa dell'"impronta umana" sul pianeta (il gruppo di Eric Sanderson della Wildlife Conservation Society). Un'impronta che, rispetto agli indicatori presi in considerazione dallo studio, ha trasformato fisicamente le terre emerse almeno fino all'83% dell'intera loro superficie. La politica non può più agire ed andare avanti senza avere consapevolezza di queste conoscenze. Gianfranco Bologna
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