lunedì, ottobre 29, 2012
“Lascia che i morti seppelliscano i loro morti”: con queste parole Gesù ci rimanda efficacemente all’essenza del messaggio cristiano, mettendoci in guardia dalla tentazione dell’ “idolatria funebre”, ossia dalla tentazione di trasformare il cristianesimo in una religione di morte per persone che non sperano più nella vita eterna

di Bartolo Salone

Nei vangeli troviamo talora delle frasi che possono scioccare, o addirittura scandalizzare, per la loro crudezza e radicalità. Si tratta di frasi ad effetto pensate allo scopo di colpire l’attenzione degli ascoltatori e costruite secondo la tecnica tipicamente evangelica del paradosso. Frasi che, dunque, rischiano di non avere nessun significato o di far dire a Gesù il contrario di quel che voleva dire, se prese alla lettera o interpretate isolatamente, al di fuori del contesto narrativo e argomentativo in cui si collocano. Fra queste, una delle più significative e al contempo incomprese è la risposta, in apparenza così brutale, che Gesù dà ad un giovane che aveva manifestato il desiderio di seguirlo, chiedendo però prima il permesso di seppellire suo padre: “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu va’ e annunzia il regno di Dio” (Lc 9, 60).

Nel contesto in cui la frase è collocata, se ne comprende agevolmente il significato: la risposta alla chiamata di Dio deve essere immediata, non si può prendere tempo, non si possono accampare scuse. Quando Gesù chiama, bisogna lasciare tutto e seguirlo, senza tentennamenti! Eppure la risposta che Gesù dà a questo giovane indica, ad essere attenti, qualcosa di più, vale a dire l’atteggiamento che il cristiano dovrebbe tenere di fronte al mistero scandaloso della morte. Sarà bene dunque approfondire quest’insegnamento soprattutto in questi giorni in cui la Chiesa esorta i suoi figli a ricordare la memoria dei fedeli defunti. Non sempre, infatti, il modo che abbiamo di ricordare i nostri cari estinti denota una reale consapevolezza del significato cristiano della vita e della morte. Anzi, a volte, i fedeli cristiani, più o meno consapevolmente, praticano forme di devozione o di vero e proprio culto ai morti che di cristiano hanno ben poco. Gli esempi concreti che al riguardo si possono evocare sono molteplici e ce ne rendiamo conto soprattutto quando un lutto scuote la nostra famiglia o persone a noi vicine. Chi si rifugia ossessivamente nel ricordo, riempiendo la sua casa di foto del defunto o trasformando la camera di quest’ultimo in un vero e proprio mausoleo o costruendo in casa dei veri e propri altari commemorativi, in cui sfogare di tanto in tanto il proprio pianto. Chi, anche a distanza di anni, con periodica cadenza, uno o più giorni della settimana, si reca al cimitero, a metter fiori o a ripulire la lapide. Chi addirittura passa ore e ore nei cimiteri, spesso portando con sé i bambini e costringendoli a rimanere per tutto il tempo.

Conosco tante di queste persone, che non dimenticano mai di recarsi al cimitero, almeno una volta a settimana, ma che con altrettanta sistematicità si dimenticano di andare a messa la domenica! Ed è a quel punto che ti chiedi cosa ci sia davvero di cristiano in tutto questo. Il cristianesimo è una religione di vita, di speranza, di resurrezione. Molti invece la vivono come fosse una religione di morte, di tristezza, di rassegnazione. Ecco allora come le parole di Gesù, “lascia che i morti seppelliscano i loro morti”, si illuminano nel loro significato più profondo, perché esprimono quel cammino di conversione alla vita che ogni credente in Cristo è chiamato a compiere. Seguire Gesù significa abbandonare quella cultura di morte, quella propensione alla rassegnazione e alla disperazione che alberga da sempre nel cuore dell’uomo. Seguire Gesù significa credere che la vita è più forte della morte; che oltre la morte corporale c’è la vita vera, la vita che non muore più. Il vero seguace di Cristo non è colui che rimane schiavo del passato, del ricordo malinconico, ma colui che guarda al futuro con speranza, perché non è certo nel passato che si può vivere una relazione sana e genuina con chi ha lasciato prima di noi questo mondo. Piuttosto il cristiano sa che un giorno incontrerà i propri cari defunti nell’eternità e nel frattempo non dispera, ma prega fiducioso per la salvezza propria e dei propri cari.

Con le sue parole così dure Gesù vuole condannare quell’atteggiamento di pessimismo di fronte alla vita e di rassegnazione verso la morte che caratterizza tanta pratica religiosa, ieri come oggi. Pessimismo e rassegnazione che possono facilmente portare a forme di vera e propria “idolatria funebre”, come quelle di cui abbiamo sopra parlato. Nello stesso tempo, Gesù ci restituisce una visione estremamente originale della religione, una visione che, in rottura col passato, non vuole essere per nulla consolatoria, ma piuttosto – e non è la stessa cosa – apportatrice di senso. Qualcuno sostiene, però, rifacendosi alla concezione di Feuerbach della religione come “infanzia dell’umanità” (ossia una bella favola per trovare consolazione di fronte all’incertezza della vita e all’imprevedibilità e potenza della natura), che neppure il cristianesimo sfuggirebbe a questa dinamica e tenta di spiegare la stessa verità della risurrezione della carne e della vita eterna come una pia invenzione creata dagli uomini al fine di vincere la paura della morte. Ma se fosse realmente così, questa credenza dovrebbe allora esistere fin dagli albori dell’umanità, quando invece la credenza nella resurrezione corporale e nella vita eterna compare solo nel tardo ebraismo, non riscuotendo unanimità di consensi neppure al tempo di Gesù. Abbandonando una prospettiva di analisi di tipo puramente filosofico-astratto e ponendoci invece in una prospettiva storica, pare quindi più ragionevole ritenere che non la paura della morte ha portato alla elaborazione della credenza nella resurrezione della carne, ma che al contrario questa credenza, elevata dal cristianesimo dal livello di pura ipotesi teologica (come era all’interno dell’ebraismo) a dogma di fede, ha contribuito a dare senso ad una esperienza, quella della morte, che da sempre è per gli uomini fonte di pena e di preoccupazione. Insomma, l’esatto contrario di quanto sostengono gli autori atei nella loro precomprensione del fenomeno religioso in termini lato sensu “consolatori”.

Ma, a ben vedere, un affrancamento della religione da elementi consolatori si manifesta già in seno all’ebraismo, che condannerà molte pratiche del passato (pacificamente accettate nell’ambito delle tradizioni religiose di stampo politeistico) come delle vere e proprie forme di idolatria. Si pensi ad esempio a quelle manifestazioni di culto verso i defunti, denunciate come forme di idolatria da Sapienza 14, 15 (un padre che onora il figlioletto morto come un dio, costringendo i suoi servi a fare altrettanto). Questo processo troverà il suo culmine nel cristianesimo, con l’esortazione di Gesù a lasciare che i “morti” (cioè coloro i quali non accettano la novità del suo messaggio di vita e di speranza) seppelliscano i loro morti, come del resto hanno sempre fatto. Da qui l’esigenza, per noi credenti, di riscoprire il senso autenticamente cristiano delle pratiche di pietà verso i defunti, evitando di incorrere in forme di idolatria funebre che nulla hanno a che vedere con la nostra santa religione.

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