Bani Walid è assediata, senza cibo, carburante, medicine e ossigeno per l’ospedale
di Patrizio Ricci
Per un attimo l’assalto all’ambasciata USA e il brutale assassinio dell’ambasciatore Chris Stevens ha squarciato il silenzio calato sulla Libia liberata. L’episodio rivela che ad un anno della cruenta caduta del regime di Gheddafi, nonostante le elezioni, la situazione in realtà è a dir poco caotica. Il politico Fathi Bajh (ex-membro del Consiglio Nazionale precedente) ha dichiarato ad Al-Jazeera che sono presenti sul territorio libico ben 1.700 formazioni armate: “Per avere un esatto tenore della gravità che questo rappresenta - ha aggiunto - si pensi che in una remota area a sud di Tripoli chiamata Zintan sono presenti 240 differenti battaglioni”. Per queste milizie la guerra non è mai finita: per la conquista della supremazia e del potere locale sono accusate di "rapimenti, uccisioni, bombardamenti e terrorismo". Il Congresso Nazionale Libico, per non deteriorare la situazione, l’indomani dell’attacco all’ambasciata USA ha perciò deciso lo scioglimento di tali milizie, anche con l’uso della forza. Difficile però capire chi debba far eseguire queste disposizioni non esistendo un vero e proprio esercito nazionale.
Quanto sta accadendo a Bani Walid è emblematico: la città dal 25 di settembre è sotto assedio delle milizie di Misurata, di Zintan e di quelle accorse di propria iniziativa un po’ da tutto il paese. Dal 10 ottobre sono iniziati i cannoneggiamenti: si pretende che la gente evacui la città, ma ora, ad ultimatum scaduto, è troppo tardi. Si cercano poi gli esecutori dell’omicidio di Omran Shaban, il giovane che catturò il dittatore: è stato rapito e torturato ed è poi morto per le lesioni subite, nonostante il tentativo di curarlo a Parigi.
Bani Walid è il luogo di massima concentrazione dei membri della tribù Warfalla, la principale sostenitrice di Gheddafi e la più numerosa di tutta la Libia. Nella guerra anti-Gheddafi la città ha opposto una strenua resistenza. La resa, successiva ai pesanti bombardamenti Nato, è stata caratterizzata da vendette, saccheggi e detenzioni arbitrarie ad opera delle milizie rivoluzionarie. L’operazione in corso, effettuata con impiego di armamento pesante e, sembra, anche di gas proibiti, appare chiaramente più una rappresaglia dettata da profonde divisioni locali e tribali che una vera operazione di polizia.
L’uso sproporzionato dei cannoneggiamenti sulla città e le numerose vittime innocenti hanno trovato attendibile testimonianza nella Croce Rossa Internazionale, che è riuscita ad arrivare il 10 ottobre all’ospedale della città: l’organizzazione internazionale ha confermato l’estrema necessità di forniture mediche e di generi di prima necessità per la popolazione (70.000 abitanti a cui si devono aggiungere migliaia di rifugiati sfuggiti dalle rappresaglie). La CRI ha testimoniato che i rifornimenti di viveri e beni di prima necessità mandati alla città sono stati respinti dalle forze governative, che hanno posto un blocco a 30 km dalla città. Amnesty International è intervenuta lanciando un appello alle autorità libiche perché sia tolto l’assedio e cessi l’uso sproporzionato della forza. L’Organizzazione che si batte per i diritti umani ha anche più volte sollecitato il Congresso Nazionale ad affrontare la situazione delle migliaia di persone detenute senza accusa né processo, a porre immediatamente fine ai rapimenti in corso d’individui da parte delle milizie armate e a provvedere alla chiusura di tutte le strutture di detenzione non ufficiali sparse in tutto il paese. Ricordiamo che per le stesse ragioni Medici Senza Frontiere è stata costretta a lasciare la Libia non riuscendo a ottenere significative garanzie.
La guerra civile che a portato alla morte di Gheddafi, anziché sedare, sembra aver rinfocolato le storiche conflittualità tribali; l’attività del fragile governo più che attenuare le divisioni sembra enfatizzarle. Per rendersene conto basti leggere la legge governativa n. 37: prevede che chi manifesta la sua nostalgia per il regime di Gheddafi incorre nel reato di “apologia” della rivoluzione e incontra pene severissime che possono arrivare fino al carcere a vita. Quello che è paradossale è che il successivo articolo, il n. 38, prevede l’assoluta immunità per chi si sia macchiato di reati gravi “a patto che siano serviti per proteggere la rivoluzione”.
Un altro punto da approfondire è il seguente: non si capisce perché i cittadini di Bani Walid sono così ostinati e continuano ad opporsi all’ingresso dei governativi e dei miliziani. Raggiunti per telefono da Al-Jazeera, l’attivista politico Salah al-Mishri e l’accademico Jibril Qrimidh, entrambi a Bani Walid, dicono che gli abitanti della città rifiutano di essere tutti marchiati come ‘fedelissimi di Gheddafi ‘ perché in realtà la città, benché con forti tendenze all’indipendenza locale, da cui la richiesta di un Consiglio locale, tuttavia “ha apertamente accettato l’adesione al nuovo stato libico e riconosce la legittima delle autorità elette”, ma precisa che “riconosce l’autorità governativa e non certo le bande armate che compiono illegalità”. La paura è quindi di consegnare la gente a “federazioni statali parallele non dichiarate". Non è una fobia ingiustificata: a Misurata può bastare che qualcuno figuri solo residente a Bani Walid per essere arrestato e detenuto. Per queste ragioni la popolazione della città sembra abbia richiesto con una petizione l’interessamento dell’ONU: “Chiediamo al Consiglio di Sicurezza dell’Onu di riunirsi per intervenire a proteggere i civili della città”.
di Patrizio Ricci
Per un attimo l’assalto all’ambasciata USA e il brutale assassinio dell’ambasciatore Chris Stevens ha squarciato il silenzio calato sulla Libia liberata. L’episodio rivela che ad un anno della cruenta caduta del regime di Gheddafi, nonostante le elezioni, la situazione in realtà è a dir poco caotica. Il politico Fathi Bajh (ex-membro del Consiglio Nazionale precedente) ha dichiarato ad Al-Jazeera che sono presenti sul territorio libico ben 1.700 formazioni armate: “Per avere un esatto tenore della gravità che questo rappresenta - ha aggiunto - si pensi che in una remota area a sud di Tripoli chiamata Zintan sono presenti 240 differenti battaglioni”. Per queste milizie la guerra non è mai finita: per la conquista della supremazia e del potere locale sono accusate di "rapimenti, uccisioni, bombardamenti e terrorismo". Il Congresso Nazionale Libico, per non deteriorare la situazione, l’indomani dell’attacco all’ambasciata USA ha perciò deciso lo scioglimento di tali milizie, anche con l’uso della forza. Difficile però capire chi debba far eseguire queste disposizioni non esistendo un vero e proprio esercito nazionale.
Quanto sta accadendo a Bani Walid è emblematico: la città dal 25 di settembre è sotto assedio delle milizie di Misurata, di Zintan e di quelle accorse di propria iniziativa un po’ da tutto il paese. Dal 10 ottobre sono iniziati i cannoneggiamenti: si pretende che la gente evacui la città, ma ora, ad ultimatum scaduto, è troppo tardi. Si cercano poi gli esecutori dell’omicidio di Omran Shaban, il giovane che catturò il dittatore: è stato rapito e torturato ed è poi morto per le lesioni subite, nonostante il tentativo di curarlo a Parigi.
Bani Walid è il luogo di massima concentrazione dei membri della tribù Warfalla, la principale sostenitrice di Gheddafi e la più numerosa di tutta la Libia. Nella guerra anti-Gheddafi la città ha opposto una strenua resistenza. La resa, successiva ai pesanti bombardamenti Nato, è stata caratterizzata da vendette, saccheggi e detenzioni arbitrarie ad opera delle milizie rivoluzionarie. L’operazione in corso, effettuata con impiego di armamento pesante e, sembra, anche di gas proibiti, appare chiaramente più una rappresaglia dettata da profonde divisioni locali e tribali che una vera operazione di polizia.
L’uso sproporzionato dei cannoneggiamenti sulla città e le numerose vittime innocenti hanno trovato attendibile testimonianza nella Croce Rossa Internazionale, che è riuscita ad arrivare il 10 ottobre all’ospedale della città: l’organizzazione internazionale ha confermato l’estrema necessità di forniture mediche e di generi di prima necessità per la popolazione (70.000 abitanti a cui si devono aggiungere migliaia di rifugiati sfuggiti dalle rappresaglie). La CRI ha testimoniato che i rifornimenti di viveri e beni di prima necessità mandati alla città sono stati respinti dalle forze governative, che hanno posto un blocco a 30 km dalla città. Amnesty International è intervenuta lanciando un appello alle autorità libiche perché sia tolto l’assedio e cessi l’uso sproporzionato della forza. L’Organizzazione che si batte per i diritti umani ha anche più volte sollecitato il Congresso Nazionale ad affrontare la situazione delle migliaia di persone detenute senza accusa né processo, a porre immediatamente fine ai rapimenti in corso d’individui da parte delle milizie armate e a provvedere alla chiusura di tutte le strutture di detenzione non ufficiali sparse in tutto il paese. Ricordiamo che per le stesse ragioni Medici Senza Frontiere è stata costretta a lasciare la Libia non riuscendo a ottenere significative garanzie.
La guerra civile che a portato alla morte di Gheddafi, anziché sedare, sembra aver rinfocolato le storiche conflittualità tribali; l’attività del fragile governo più che attenuare le divisioni sembra enfatizzarle. Per rendersene conto basti leggere la legge governativa n. 37: prevede che chi manifesta la sua nostalgia per il regime di Gheddafi incorre nel reato di “apologia” della rivoluzione e incontra pene severissime che possono arrivare fino al carcere a vita. Quello che è paradossale è che il successivo articolo, il n. 38, prevede l’assoluta immunità per chi si sia macchiato di reati gravi “a patto che siano serviti per proteggere la rivoluzione”.
Un altro punto da approfondire è il seguente: non si capisce perché i cittadini di Bani Walid sono così ostinati e continuano ad opporsi all’ingresso dei governativi e dei miliziani. Raggiunti per telefono da Al-Jazeera, l’attivista politico Salah al-Mishri e l’accademico Jibril Qrimidh, entrambi a Bani Walid, dicono che gli abitanti della città rifiutano di essere tutti marchiati come ‘fedelissimi di Gheddafi ‘ perché in realtà la città, benché con forti tendenze all’indipendenza locale, da cui la richiesta di un Consiglio locale, tuttavia “ha apertamente accettato l’adesione al nuovo stato libico e riconosce la legittima delle autorità elette”, ma precisa che “riconosce l’autorità governativa e non certo le bande armate che compiono illegalità”. La paura è quindi di consegnare la gente a “federazioni statali parallele non dichiarate". Non è una fobia ingiustificata: a Misurata può bastare che qualcuno figuri solo residente a Bani Walid per essere arrestato e detenuto. Per queste ragioni la popolazione della città sembra abbia richiesto con una petizione l’interessamento dell’ONU: “Chiediamo al Consiglio di Sicurezza dell’Onu di riunirsi per intervenire a proteggere i civili della città”.
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È presente 1 commento
Mi sembra banale c'é da spiegare che le tribù vivono in una nazione e ad Amnesty International e a Medici Senza Frontiere di farsi i caxxi propri.
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