Intervista all’autore del libro “Gotica”, che racconta come le organizzazioni criminali del sud, ed in particolare la ‘ndrangheta, si siano sviluppate anche nel nord Italia
di Paola Bisconti
D - Quello che le è accaduto nel 1988 a Bovarino ha segnato forse per sempre il suo destino: l’incendio nei capannoni della “Fonti cucine sas” (di suo nonno) e l’assassinio di suo padre quanto hanno inciso nella scelta di intraprendere questa “difficile e schiaffeggiata” professione del giornalista?
R - Entrambe le esperienze hanno inciso nel modo di vedere le cose, di certo sono avvenimenti che porto sempre con me ma non sono riconducibili alla scelta di fare giornalismo : la passione per questa professione viene a prescindere dal mio passato. Poi quando i fenomeni che conoscevo molto bene si sono presentati anche a Modena, mi sono reso conto che si potevano unire le cose, per questo ho deciso di raccontare la realtà che ho vissuto in prima persona attraverso il mio mestiere. Quanto mi è accaduto in passato mi aiuta a leggere meglio alcune logiche che ora racconto nei miei articoli.
D - Denunciare la verità attraverso i suoi articoli e il recente libro comporta un rischio notevole che vive ogni giorno sulla sua pelle. La mafia però non ha vinto su di lei, anche se “fomenta la paura e crea insicurezza per proporre la tranquillità come merce”. Dove ha trovato il coraggio di affrontare i mafiosi “sciacalli e creatori di bisogni indotti”?
R - Non si tratta solo di coraggio, ognuno è chiamato a fare delle scelte in qualsiasi professione. Non credo negli eroi ma nel fatto che ciascuno di noi può fare la propria parte svolgendo normalmente il suo lavoro. A volte accade, soprattutto in Italia, che ciò che è normale appare eccezionale, ma non c’è nulla di straordinario se un giornalista dà un tipo di notizia o se un imprenditore denuncia chi gli chiede il pizzo: purtroppo questo è un Paese strano che sta perdendo il senso della normalità.
D - Quando ha raggiunto per la prima volta Modena l’ha definita la città della “rinascita”, osservando una normalità che mancava nel suo paese. Il tempo ha tolto i veli di quella apparente tranquillità affidando anche alla sua penna il compito di raccontare cosa si cela dietro l’apparenza. Ora che è consapevole della realtà, vorrebbe trovare un nuovo luogo per vivere lontano dalla corrosione mafiosa?
R - Non credo esistano dei luoghi immuni, di sicuro però ci sono territori dove non c’è quella cappa mafiosa che si respira nella Locride; ma purtroppo la realtà conferma che dal nord al sud l’intera Italia è stata invasa dalla corruzione. Non amo scappare, cerco solo di raccontare e denunciare i fenomeni mafiosi. Quando anni fa con la mia famiglia abbiamo lasciato la Calabria siamo stati in qualche modo costretti a farlo a causa di una situazione molto difficile. Oggi fortunatamente esistono numerose associazioni e presidi che aiutano il cittadino a non sentirsi solo e ad affrontare l’oscurità del potere mafioso.
D - Come scrive nel suo libro, la mafia ha trovato terreno fertile nel nord grazie ad una “morbidezza etica” che ha permesso di diffondere una “cultura pervasiva che penetra nelle vene, dura da liberarsene”. Oggi nelle scuole si affronta spesso la questione legalità: è senza dubbio un metodo educativo utile per diffondere consapevolezza. Che cos’altro occorrerebbe fare per le nuove generazioni?
R - La cultura della legalità è un primo passo, ma non si possono insegnare le regole senza dare il buono esempio. In televisione i boss vengono presentati come degli eroi, i ragazzi sono affascinati da questa figura: questo di certo non facilita l’educazione. Non è sufficiente un elemento per consentire l’affermazione della legalità, sono diversi aspetti che insieme possono portare dei frutti.
D - Le donne parenti dei mafiosi non sono tutte “sorelle d’omertà”: lei lo spiega raccontando l’esempio di Lea Garofalo, uccisa perché voleva raccontare la verità e dare la possibilità a sua figlia Denise di avere un futuro migliore. Queste eroine sono il simbolo di una battaglia che si può vincere oppure “non la vince nemmeno il Papa”, come ha detto Francesco Ventrici della cosca Mancuso di Vibo Valentia?
R - Se ci sono persone come Lea e Denise si può vincere questa guerra, ma solo se sono aiutate dalla parti sociali. In questo siamo chiamati tutti in causa perché è indispensabile avere un senso collettivo nella lotta alla mafia, altrimenti il sacrificio di Lea e il coraggio di Denise diventano vani. Inoltre l’attività di Ventrici fa riflettere molto sul ruolo delle imprese e delle istituzioni: mi chiedo infatti come abbia potuto quest’uomo lavorare per oltre 10 anni per una grossa multinazionale tedesca se in un’indagine risultava complice di azioni mafiose come il traffico della cocaina.
D - Secondo lei chi dice che “la mafia è un invenzione giornalistica“ non ha il coraggio di accettare la realtà oppure è uno che di mafia ci vive?
R – Entrambe le cose, e sono tutte e due pericolose nella stessa misura: la prima categoria permette alle organizzazioni mafiose di lavorare perché non comprende bene il pericolo che comporta stringere affari con i boss ma considera esclusivamente i vantaggi che se ne possono trarre, mentre la seconda è composta da coloro che stanno nell’economia, sono i prestanomi, i portatori di interessi criminali. Purtroppo è una sorta di rifugio che fa tornare indietro di anni, ma credo che i fatti della storia hanno smentito questo ritardo culturale.
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di Paola Bisconti
D - Quello che le è accaduto nel 1988 a Bovarino ha segnato forse per sempre il suo destino: l’incendio nei capannoni della “Fonti cucine sas” (di suo nonno) e l’assassinio di suo padre quanto hanno inciso nella scelta di intraprendere questa “difficile e schiaffeggiata” professione del giornalista?
R - Entrambe le esperienze hanno inciso nel modo di vedere le cose, di certo sono avvenimenti che porto sempre con me ma non sono riconducibili alla scelta di fare giornalismo : la passione per questa professione viene a prescindere dal mio passato. Poi quando i fenomeni che conoscevo molto bene si sono presentati anche a Modena, mi sono reso conto che si potevano unire le cose, per questo ho deciso di raccontare la realtà che ho vissuto in prima persona attraverso il mio mestiere. Quanto mi è accaduto in passato mi aiuta a leggere meglio alcune logiche che ora racconto nei miei articoli.
D - Denunciare la verità attraverso i suoi articoli e il recente libro comporta un rischio notevole che vive ogni giorno sulla sua pelle. La mafia però non ha vinto su di lei, anche se “fomenta la paura e crea insicurezza per proporre la tranquillità come merce”. Dove ha trovato il coraggio di affrontare i mafiosi “sciacalli e creatori di bisogni indotti”?
R - Non si tratta solo di coraggio, ognuno è chiamato a fare delle scelte in qualsiasi professione. Non credo negli eroi ma nel fatto che ciascuno di noi può fare la propria parte svolgendo normalmente il suo lavoro. A volte accade, soprattutto in Italia, che ciò che è normale appare eccezionale, ma non c’è nulla di straordinario se un giornalista dà un tipo di notizia o se un imprenditore denuncia chi gli chiede il pizzo: purtroppo questo è un Paese strano che sta perdendo il senso della normalità.
D - Quando ha raggiunto per la prima volta Modena l’ha definita la città della “rinascita”, osservando una normalità che mancava nel suo paese. Il tempo ha tolto i veli di quella apparente tranquillità affidando anche alla sua penna il compito di raccontare cosa si cela dietro l’apparenza. Ora che è consapevole della realtà, vorrebbe trovare un nuovo luogo per vivere lontano dalla corrosione mafiosa?
R - Non credo esistano dei luoghi immuni, di sicuro però ci sono territori dove non c’è quella cappa mafiosa che si respira nella Locride; ma purtroppo la realtà conferma che dal nord al sud l’intera Italia è stata invasa dalla corruzione. Non amo scappare, cerco solo di raccontare e denunciare i fenomeni mafiosi. Quando anni fa con la mia famiglia abbiamo lasciato la Calabria siamo stati in qualche modo costretti a farlo a causa di una situazione molto difficile. Oggi fortunatamente esistono numerose associazioni e presidi che aiutano il cittadino a non sentirsi solo e ad affrontare l’oscurità del potere mafioso.
D - Come scrive nel suo libro, la mafia ha trovato terreno fertile nel nord grazie ad una “morbidezza etica” che ha permesso di diffondere una “cultura pervasiva che penetra nelle vene, dura da liberarsene”. Oggi nelle scuole si affronta spesso la questione legalità: è senza dubbio un metodo educativo utile per diffondere consapevolezza. Che cos’altro occorrerebbe fare per le nuove generazioni?
R - La cultura della legalità è un primo passo, ma non si possono insegnare le regole senza dare il buono esempio. In televisione i boss vengono presentati come degli eroi, i ragazzi sono affascinati da questa figura: questo di certo non facilita l’educazione. Non è sufficiente un elemento per consentire l’affermazione della legalità, sono diversi aspetti che insieme possono portare dei frutti.
D - Le donne parenti dei mafiosi non sono tutte “sorelle d’omertà”: lei lo spiega raccontando l’esempio di Lea Garofalo, uccisa perché voleva raccontare la verità e dare la possibilità a sua figlia Denise di avere un futuro migliore. Queste eroine sono il simbolo di una battaglia che si può vincere oppure “non la vince nemmeno il Papa”, come ha detto Francesco Ventrici della cosca Mancuso di Vibo Valentia?
R - Se ci sono persone come Lea e Denise si può vincere questa guerra, ma solo se sono aiutate dalla parti sociali. In questo siamo chiamati tutti in causa perché è indispensabile avere un senso collettivo nella lotta alla mafia, altrimenti il sacrificio di Lea e il coraggio di Denise diventano vani. Inoltre l’attività di Ventrici fa riflettere molto sul ruolo delle imprese e delle istituzioni: mi chiedo infatti come abbia potuto quest’uomo lavorare per oltre 10 anni per una grossa multinazionale tedesca se in un’indagine risultava complice di azioni mafiose come il traffico della cocaina.
D - Secondo lei chi dice che “la mafia è un invenzione giornalistica“ non ha il coraggio di accettare la realtà oppure è uno che di mafia ci vive?
R – Entrambe le cose, e sono tutte e due pericolose nella stessa misura: la prima categoria permette alle organizzazioni mafiose di lavorare perché non comprende bene il pericolo che comporta stringere affari con i boss ma considera esclusivamente i vantaggi che se ne possono trarre, mentre la seconda è composta da coloro che stanno nell’economia, sono i prestanomi, i portatori di interessi criminali. Purtroppo è una sorta di rifugio che fa tornare indietro di anni, ma credo che i fatti della storia hanno smentito questo ritardo culturale.
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