martedì, novembre 13, 2012
L'aviazione israeliana ha lanciato nella notte tre raid contro obiettivi situati nella Striscia di Gaza senza provocare feriti. 

Radio Vaticana - I raid si inquadrano nella nuova ondata di violenze alla frontiera tra la Striscia di Gaza e Israele, la seconda in meno di un mese. E le autorità israeliane parlano con sempre più insistenza della possibilità di una operazione militare contro Gaza. Ma c’è tensione anche tra Israele e Siria sulle alture del Golan: Tel Aviv ha risposto ieri a un colpo di mortaio siriano. Per capire la strategia di Israele nel quadro attuale di escalation in tutta la regione, Fausta Speranza ha intervistato il prof. Claudio Lo Jacono, direttore della rivista "Oriente moderno": ascolta

R. – Non sono soltanto la Siria e la Palestina, ma - ricordiamoci – è incombente sempre la questione iraniana. Le motivazioni della guerra civile siriana sono estranee alla questione palestinese, che è la questione dirompente da oltre mezzo secolo dell’area del vicino Oriente, che non ha mai trovato un equilibrio dalla nascita di Israele in poi. Le questioni della guerra civile siriana sono di un’opposizione contro il regime dinastico familiare. Naturalmente, però, in un quadro sinistrato come quello della Siria e con un quadro anche abbastanza pericolante come quello dell’Egitto, Israele cerca di approfittare, per rafforzare la sua sicurezza, che è l’argomento principale che la preoccupa e la occupa. Israele approfitta di un quadro di assoluta difficoltà del mondo arabo: panarabismo morto e sepolto; la Siria in preda al dramma della guerra civile; l’Egitto con un nuovo presidente democraticamente eletto, non moderato per alcuni versi anche se intenzionato a mantenere una politica di non chiusura verso Israele e Iraq, che ha subito decenni di dittature, di guerre, di terrorismo interno; il Libano scosso anch’esso da problemi che non sono soltanto suoi interni, ma per lo più esterni. In questo quadro, Israele ha tutto da guadagnare nell’imporre la sua visione della sua sicurezza.

D. – A fine mese, il 29 novembre, Abu Mazen sarà di nuovo alle Nazioni Unite per chiedere il riconoscimento di Stato non membro, un passo avanti rispetto alla definizione attuale di entità osservatrice. Ma ha qualche speranza, secondo lei?

R. – Assolutamente non credo ve ne siano... Credo che Abu Mazen cerchi di uscire da una posizione d’immobilismo della quale ha anche responsabilità, in parte, l’Autorità palestinese ma assai più Israele. In questa situazione di totale stallo e addirittura arretramento di fronte a quelle che erano state le promesse di Camp David e degli accordi di Oslo, c’è il tentativo puramente d’immagine di chiedere una collocazione internazionale dell’Autorità palestinese, ma è praticamente sicuro che ci sarà il veto statunitense, che si muove sempre in favore di Israele in queste circostanze, finché non si arriverà - non si sa mai come o quando – alla realizzazione dei due popoli su un territorio.

D. – La riconferma di Obama, però, in qualche modo non era quello che Israele sperava, perché c’è tensione sul tema degli insediamenti tra Obama e Israele...

R. – Sì, certamente Israele sarebbe stato molto più contento della vittoria del suo antagonista, ma Obama si è affrettato, anche negli anni precedenti al suo primo mandato, a fare ampie dichiarazioni di rassicurazione nei confronti di Israele. Sappiamo perfettamente che l’elettorato ebraico negli Stati Uniti è molto forte e una linea anti Israele non sarebbe assolutamente fruttuosa per i candidati a cariche politiche così importanti.


Sono presenti 0 commenti

Inserisci un commento

Gentile lettore, i commenti contententi un linguaggio scorretto e offensivo verranno rimossi.



___________________________________________________________________________________________
Testata giornalistica iscritta al n. 5/11 del Registro della Stampa del Tribunale di Pisa
Proprietario ed Editore: Fabio Gioffrè
Sede della Direzione: via Socci 15, Pisa