L'Italia viene descritta come "un Paese strozzato" dagli usurai. Ma non mancano buone notizie, come l'ampliamento, a livello nazionale, della Fondazione antiusura "Interesse uomo” di Potenza. Intervista a don Marcello Cozzi, vicepresidente di Libera.
Città Nuova - Mancano i soldi. Se il panorama delle nostre città è ridisegnato dai negozi di scommesse e dei “compra oro”, vuol dire che una parte della popolazione cerca in tutti i modi di trovare il denaro sufficiente per andare avanti in maniera dignitosa. Le banche chiudono le linee di credito anche ad aziende che hanno i numeri a posto ma non ricevono pagamenti regolari dai loro clienti. C’è chi fa salti mortali per non chiudere e mandare a casa lavoratori e collaboratori, ma qualcuno di carta moneta ne ha fin troppa. «Noi vendiamo soldi» dicevano, con ruvida schiettezza popolare, i componenti della “Banda della Magliana”. Oggi a Roma i tassi di interesse degli usurai raggiungono anche il 1.500 per cento (non è un errore di stampa, proprio mille e cinquecento), mentre sono 55 i clan mafiosi che, secondo il dossier di Libera (Associazioni, nomi e numeri contro le mafie), si dividono il mercato nazionale dell’usura.
Il volume di affari che emerge dalle inchieste della magistratura è solo la punta di un iceberg. Con tale massa di manovra si controlla il territorio senza fare rumore. Nessun pezzo di Paese ne è immune e la strada per la liberazione è molo lunga da percorrere. Come ha affermato Ida Boccassini, procuratore aggiunto di Milano, con riferimento ad una recente inchiesta della direzione antimafia lombarda, il problema non potrà risolversi fono a quando «la classe imprenditoriale nazionale non capirà che strare con lo Stato è più pagante che stare con l’antistato».
La mala pianta si sviluppa sul terreno della mancanza di legami sociali, mentre, inaspettatamente, fioriscono straordinarie esperienze dal tessuto di una società civile capace di esprimere nuove forme di solidarietà. La fondazione antiusura “Interesse uomo” nata in Basilicata da oltre dieci anni ha raggiunto la dimensione nazionale presentandosi pubblicamente, a fine ottobre, con un progetto condiviso da Libera, Banca etica, Comune e Provincia di Potenza. Gli sportelli “sos giustizia” hanno come obiettivo quello di ascoltare e accompagnare le vittime di usura e racket per condurle fino alla denuncia del sistema di oppressione in cui sono cadute. Abbiamo rivolto alcune domande a don Marcello Cozzi, referente lucano di Libera e vicepresidente nazionale del network natimafie, promotore della fondazione anti usura fin dall’inizio e autore di un testo di quasi 500 pagine (“Quando la mafia non esiste”) scritto proprio per documentare gli affari della mala nella silente Basilicata.
Di associazioni e fondazioni ne esistono tantissime in questo campo, basta vedere l’elenco sul sito del ministero dell’Interno. Esiste una strategia comune?
«Sicuramente è un dato positivo questa pluralità di esperienze che nascono dall’urgenza di trovare risposte immediate ad un problema che sta crescendo nella vita di tante persone. Esistono identità e logiche di intervento diverse, ma esiste la necessità di una strategia e di un linguaggio comune. Per esempio non si sentono più le tesi di chi riteneva possibile trattare con gli usurai. Il fenomeno si contrasta solo con la denuncia».
Cosa vuol dire in concreto?
«Se una persona arriva allo sportello e dice, per esempio, che deve ancora dare 10 mila euro di odiosi interessi non gli possiamo dire: facciamo l’accordo per 5 mila e chiudiamo tutto. Non va riconosciuto neanche un euro. E comunque dobbiamo recuperare un linguaggio comune non solo verso gli usurai, ma soprattutto verso chi ha responsabilità politiche e istituzionali. Dobbiamo dire che ci sono da proteggere e salvare le persone in carne e ossa».
L’usura è, come avete detto, solo la punta dell’iceberg. Esiste la stima complessiva del giro di affari annuale?
«La stima dei soldi gestiti dall’usura è impossibile. C’è molta usura che non è denunciata per paura e anche perché non viene percepita come tale. Certe volte anche i carnefici non si sentono colpevoli. È qualcosa di molto radicato che va scardinato culturalmente prima ancora che per le vie penali. Esiste come un codice sociale profondo che contraddice la gratuità. Le radici vanno al di là del denaro, era praticata già con il baratto».
Considerando la penetrazione pervasiva della mafia, possiamo dare almeno un valore superiore ad una certa soglia?
«In maniera banalmente deduttiva e semplicistica si può prendere ad esempio il fatto che in due anni sono stati sequestrati 200 milioni di euro a soli sette dei 55 clan mafiosi coinvolti dediti all’usura. Basta fare una proporzione per avere un’idea opaca di quello che si muove. Un giro di affari che solo una grande organizzazione riesce a gestire imponendosi a quelle figure già esistenti come gli strozzini di paese o di quartiere».
La dotazione di 250 milioni del fondo di solidarietà per le vittime di usura assicurata dal ministero degli Interni è uno stanziamento efficace? Avete fatto o ci sono proposte per una dotazione adeguata anche per quello di garanzia?
«In questo campo, da molti anni, esiste lo storno dal fondo di solidarietà al fondo di prevenzione, gestito dal ministero dello Sviluppo, dato che quest’ultimo non viene più sostenuto direttamente secondo la legge 108. Ci sono stati due anni, a metà degli anni 2000, in cui il fondo di prevenzione è scomparso perché non è stato alimentato. Ciò ha voluto dire far rimanere a secco la gran parte degli sportelli anti usura che sono l’ultima spiaggia di chi non sa davvero come fare. Comunque è evidente che 250 milioni per il fondo di solidarietà sono insoddisfacenti».
Per ogni approfondimento cfr www.libera.it/sosgiustizia
Città Nuova - Mancano i soldi. Se il panorama delle nostre città è ridisegnato dai negozi di scommesse e dei “compra oro”, vuol dire che una parte della popolazione cerca in tutti i modi di trovare il denaro sufficiente per andare avanti in maniera dignitosa. Le banche chiudono le linee di credito anche ad aziende che hanno i numeri a posto ma non ricevono pagamenti regolari dai loro clienti. C’è chi fa salti mortali per non chiudere e mandare a casa lavoratori e collaboratori, ma qualcuno di carta moneta ne ha fin troppa. «Noi vendiamo soldi» dicevano, con ruvida schiettezza popolare, i componenti della “Banda della Magliana”. Oggi a Roma i tassi di interesse degli usurai raggiungono anche il 1.500 per cento (non è un errore di stampa, proprio mille e cinquecento), mentre sono 55 i clan mafiosi che, secondo il dossier di Libera (Associazioni, nomi e numeri contro le mafie), si dividono il mercato nazionale dell’usura.
Il volume di affari che emerge dalle inchieste della magistratura è solo la punta di un iceberg. Con tale massa di manovra si controlla il territorio senza fare rumore. Nessun pezzo di Paese ne è immune e la strada per la liberazione è molo lunga da percorrere. Come ha affermato Ida Boccassini, procuratore aggiunto di Milano, con riferimento ad una recente inchiesta della direzione antimafia lombarda, il problema non potrà risolversi fono a quando «la classe imprenditoriale nazionale non capirà che strare con lo Stato è più pagante che stare con l’antistato».
La mala pianta si sviluppa sul terreno della mancanza di legami sociali, mentre, inaspettatamente, fioriscono straordinarie esperienze dal tessuto di una società civile capace di esprimere nuove forme di solidarietà. La fondazione antiusura “Interesse uomo” nata in Basilicata da oltre dieci anni ha raggiunto la dimensione nazionale presentandosi pubblicamente, a fine ottobre, con un progetto condiviso da Libera, Banca etica, Comune e Provincia di Potenza. Gli sportelli “sos giustizia” hanno come obiettivo quello di ascoltare e accompagnare le vittime di usura e racket per condurle fino alla denuncia del sistema di oppressione in cui sono cadute. Abbiamo rivolto alcune domande a don Marcello Cozzi, referente lucano di Libera e vicepresidente nazionale del network natimafie, promotore della fondazione anti usura fin dall’inizio e autore di un testo di quasi 500 pagine (“Quando la mafia non esiste”) scritto proprio per documentare gli affari della mala nella silente Basilicata.
Di associazioni e fondazioni ne esistono tantissime in questo campo, basta vedere l’elenco sul sito del ministero dell’Interno. Esiste una strategia comune?
«Sicuramente è un dato positivo questa pluralità di esperienze che nascono dall’urgenza di trovare risposte immediate ad un problema che sta crescendo nella vita di tante persone. Esistono identità e logiche di intervento diverse, ma esiste la necessità di una strategia e di un linguaggio comune. Per esempio non si sentono più le tesi di chi riteneva possibile trattare con gli usurai. Il fenomeno si contrasta solo con la denuncia».
Cosa vuol dire in concreto?
«Se una persona arriva allo sportello e dice, per esempio, che deve ancora dare 10 mila euro di odiosi interessi non gli possiamo dire: facciamo l’accordo per 5 mila e chiudiamo tutto. Non va riconosciuto neanche un euro. E comunque dobbiamo recuperare un linguaggio comune non solo verso gli usurai, ma soprattutto verso chi ha responsabilità politiche e istituzionali. Dobbiamo dire che ci sono da proteggere e salvare le persone in carne e ossa».
L’usura è, come avete detto, solo la punta dell’iceberg. Esiste la stima complessiva del giro di affari annuale?
«La stima dei soldi gestiti dall’usura è impossibile. C’è molta usura che non è denunciata per paura e anche perché non viene percepita come tale. Certe volte anche i carnefici non si sentono colpevoli. È qualcosa di molto radicato che va scardinato culturalmente prima ancora che per le vie penali. Esiste come un codice sociale profondo che contraddice la gratuità. Le radici vanno al di là del denaro, era praticata già con il baratto».
Considerando la penetrazione pervasiva della mafia, possiamo dare almeno un valore superiore ad una certa soglia?
«In maniera banalmente deduttiva e semplicistica si può prendere ad esempio il fatto che in due anni sono stati sequestrati 200 milioni di euro a soli sette dei 55 clan mafiosi coinvolti dediti all’usura. Basta fare una proporzione per avere un’idea opaca di quello che si muove. Un giro di affari che solo una grande organizzazione riesce a gestire imponendosi a quelle figure già esistenti come gli strozzini di paese o di quartiere».
La dotazione di 250 milioni del fondo di solidarietà per le vittime di usura assicurata dal ministero degli Interni è uno stanziamento efficace? Avete fatto o ci sono proposte per una dotazione adeguata anche per quello di garanzia?
«In questo campo, da molti anni, esiste lo storno dal fondo di solidarietà al fondo di prevenzione, gestito dal ministero dello Sviluppo, dato che quest’ultimo non viene più sostenuto direttamente secondo la legge 108. Ci sono stati due anni, a metà degli anni 2000, in cui il fondo di prevenzione è scomparso perché non è stato alimentato. Ciò ha voluto dire far rimanere a secco la gran parte degli sportelli anti usura che sono l’ultima spiaggia di chi non sa davvero come fare. Comunque è evidente che 250 milioni per il fondo di solidarietà sono insoddisfacenti».
Per ogni approfondimento cfr www.libera.it/sosgiustizia
Carlo Cefaloni
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