“Lo stesso odio che ha ucciso monsignor Romero è il responsabile di questo nuovo massacro”. Così monsignor Arturo Rivera Damas, reagì all’uccisione di sei religiosi gesuiti, di una loro collaboratrice e della figlia adolescente il 16 novembre del 1989, in piena guerra civile (1980-1992).
Misna - I soldati del battaglione anti-guerriglia Atlacatl, addestrato negli Stati Uniti, fecero irruzione nella ‘Universidad Centroamericana José Simeón Cañas’ (Uca), assassinando il rettore, il gesuita spagnolo Ignacio Ellacuría, insieme ai confratelli spagnoli Ignacio Martin Baro, Segundo Montes, Amando Lopez, Juan Ramon Moreno, e al salvadoregno Joaquin Lopez, oltre alla cuoca Elba Julia Ramos e a sua figlia quindicenne Celina Mariceth Ramos. Inizialmente il governo tentò di attribuire la responsabilità dell’eccidio alla guerriglia del ‘Frente Farabundo Martí para la Liberación Nacional’ (Fmln), oggi partito al potere. Carlos Ayala Ramírez, direttore dell’emittente universitaria Radio Ysuca, “uno dei progetti più amati dal nostro rettore martire Ellacuría”, ricorda in un articolo pubblicato dall’agenzia ‘Adital’ che monsignor Damas “definì la strage un duro colpo per la Chiesa – i gesuiti avevano dedicato parte della loro vita alla formazione del clero – per la Compagnia di Gesù – perché alla luce del Concilio Vaticano II, Medellín e Puebla avevano scelto l’opzione preferenziale per i poveri – e per la cultura del paese – erano analisti acuti che portavano allo scoperto l’ingiustizia sociale e facevano proposte per la sua trasformazione. Così, la storia che nasceva in quei giorni era segnata dal dolore e dalla desolazione”. Il novembre del 1989 “fu per la Uca un mese di profondo dolore” aggiunge Ayala, “ma, paradossalmente, anche il tempo del più grande omaggio all’evangelista Giovanni: «Non c’è amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici!». Ovvero, la consegna totale di un essere umano libero e generoso, per amore, a un popolo di poveri”. Il tema scelto quest’anno per commemorare i martiri della Uca – Un ritorno ai poveri per amore è un ritorno al Vangelo – “rende attuale questa consegna radicale. Ma allo stesso tempo – afferma Ayala – ci riporta a una delle ragioni primordiali per cui abbiamo avuto martiri e che non dobbiamo considerare scontata. Jon Sobrino lo spiega nei seguenti termini: «Perché molte erano le vittime da difendere e la grande crudeltà dalla quale occorreva liberarle». Da qui, secondo il teologo, se vogliamo situare correttamente i martiri nella nostra realtà e porre correttamente noi di fronte ad essi, occorre includerli tra i poveri e le vittime”. L’università – sostenevano i martiri della Uca – “deve incarnarsi tra i poveri per essere la scienza di coloro che non hanno scienza, la voce di coloro che non hanno voce, il supporto intellettuale di coloro che nella loro stessa realtà possiedono la verità e la ragione ma non hanno le ragioni accademiche per giustificarle e legittimarle”. A 23 anni dai fatti – conclude Ayala – è ancora aperta la riflessione sull’università che i martiri della Uca ci hanno lasciato, “una forza sociale al servizio della verità, della giustizia, della liberazione e dell’umanizzazione. Quella il cui fine essenziale è l’eccellenza e in cui l’accademia è necessaria e molto importante, ma che non è l’ultima finalità. Portare avanti questo modo di essere universitario è un impegno che richiede responsabilità e creatività, sia istituzionale che personale. E in questa opzione, il primo sguardo – come in Gesù e i martiri – non si concentra sul peccato delle persone ma sulla sofferenza che patiscono. La prima cosa che colpisce il cuore è il dolore, l’oppressione e l’umiliazione di uomini e donne. Da qui la necessità etica e profetica di tornare ai poveri per amore”. Per l’eccidio alla Uca, un colonnello, due tenenti, un sottotenente e cinque soldati furono processati nel 1991: sette furono assolti; i due condannati – al colonnello Guillermo Benavides e al teniente Yusshy Mendoza furono comminati 30 anni di carcere – beneficiarono in seguito di un’amnistia decretata nel 1993 dall’allora presidente Alfredo Cristiani (1989-1994), poche ore prima della pubblicazione di un rapporto della Commissione della Verità dell’Onu che attribuì agli alti vertici militari la responsabilità della strage. L’amnistia chiuse di fatto la vicenda in Salvador, riaperta nel 2009 in Spagna sulla base di una denuncia presentata dalla ‘Asociación Pro Derechos Humanos’ iberica e dall’organizzazione statunitense ‘Center For Justice & Accountability’. La Uca continua a chiedere che venga fatta piena luce sui mandanti della strage.
Misna - I soldati del battaglione anti-guerriglia Atlacatl, addestrato negli Stati Uniti, fecero irruzione nella ‘Universidad Centroamericana José Simeón Cañas’ (Uca), assassinando il rettore, il gesuita spagnolo Ignacio Ellacuría, insieme ai confratelli spagnoli Ignacio Martin Baro, Segundo Montes, Amando Lopez, Juan Ramon Moreno, e al salvadoregno Joaquin Lopez, oltre alla cuoca Elba Julia Ramos e a sua figlia quindicenne Celina Mariceth Ramos. Inizialmente il governo tentò di attribuire la responsabilità dell’eccidio alla guerriglia del ‘Frente Farabundo Martí para la Liberación Nacional’ (Fmln), oggi partito al potere. Carlos Ayala Ramírez, direttore dell’emittente universitaria Radio Ysuca, “uno dei progetti più amati dal nostro rettore martire Ellacuría”, ricorda in un articolo pubblicato dall’agenzia ‘Adital’ che monsignor Damas “definì la strage un duro colpo per la Chiesa – i gesuiti avevano dedicato parte della loro vita alla formazione del clero – per la Compagnia di Gesù – perché alla luce del Concilio Vaticano II, Medellín e Puebla avevano scelto l’opzione preferenziale per i poveri – e per la cultura del paese – erano analisti acuti che portavano allo scoperto l’ingiustizia sociale e facevano proposte per la sua trasformazione. Così, la storia che nasceva in quei giorni era segnata dal dolore e dalla desolazione”. Il novembre del 1989 “fu per la Uca un mese di profondo dolore” aggiunge Ayala, “ma, paradossalmente, anche il tempo del più grande omaggio all’evangelista Giovanni: «Non c’è amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici!». Ovvero, la consegna totale di un essere umano libero e generoso, per amore, a un popolo di poveri”. Il tema scelto quest’anno per commemorare i martiri della Uca – Un ritorno ai poveri per amore è un ritorno al Vangelo – “rende attuale questa consegna radicale. Ma allo stesso tempo – afferma Ayala – ci riporta a una delle ragioni primordiali per cui abbiamo avuto martiri e che non dobbiamo considerare scontata. Jon Sobrino lo spiega nei seguenti termini: «Perché molte erano le vittime da difendere e la grande crudeltà dalla quale occorreva liberarle». Da qui, secondo il teologo, se vogliamo situare correttamente i martiri nella nostra realtà e porre correttamente noi di fronte ad essi, occorre includerli tra i poveri e le vittime”. L’università – sostenevano i martiri della Uca – “deve incarnarsi tra i poveri per essere la scienza di coloro che non hanno scienza, la voce di coloro che non hanno voce, il supporto intellettuale di coloro che nella loro stessa realtà possiedono la verità e la ragione ma non hanno le ragioni accademiche per giustificarle e legittimarle”. A 23 anni dai fatti – conclude Ayala – è ancora aperta la riflessione sull’università che i martiri della Uca ci hanno lasciato, “una forza sociale al servizio della verità, della giustizia, della liberazione e dell’umanizzazione. Quella il cui fine essenziale è l’eccellenza e in cui l’accademia è necessaria e molto importante, ma che non è l’ultima finalità. Portare avanti questo modo di essere universitario è un impegno che richiede responsabilità e creatività, sia istituzionale che personale. E in questa opzione, il primo sguardo – come in Gesù e i martiri – non si concentra sul peccato delle persone ma sulla sofferenza che patiscono. La prima cosa che colpisce il cuore è il dolore, l’oppressione e l’umiliazione di uomini e donne. Da qui la necessità etica e profetica di tornare ai poveri per amore”. Per l’eccidio alla Uca, un colonnello, due tenenti, un sottotenente e cinque soldati furono processati nel 1991: sette furono assolti; i due condannati – al colonnello Guillermo Benavides e al teniente Yusshy Mendoza furono comminati 30 anni di carcere – beneficiarono in seguito di un’amnistia decretata nel 1993 dall’allora presidente Alfredo Cristiani (1989-1994), poche ore prima della pubblicazione di un rapporto della Commissione della Verità dell’Onu che attribuì agli alti vertici militari la responsabilità della strage. L’amnistia chiuse di fatto la vicenda in Salvador, riaperta nel 2009 in Spagna sulla base di una denuncia presentata dalla ‘Asociación Pro Derechos Humanos’ iberica e dall’organizzazione statunitense ‘Center For Justice & Accountability’. La Uca continua a chiedere che venga fatta piena luce sui mandanti della strage.
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