Continua, con nuove forme, la depredazione delle ricchezze del Continente nero. Come opporsi?
Città Nuova - Nel marzo scorso i titoli di diversi giornali in tutto il mondo hanno puntato il dito verso l'Etiopia, teatro di una corsa ai terreni agricoli su scala globale: la popolazione locale veniva cacciata, mentre investitori stranieri approfittavano delle facilitazioni governative per affittare terreni a prezzi agevolati. Molti si chiedevano come l'Etiopia, uno dei maggiori beneficiari di aiuti alimentari e allo sviluppo a livello mondiale, potesse offrire oltre tre milioni di ettari di foresta vergine a società straniere come Karuturi. Numerose famiglie sono state costrette ad andarsene: «Che potere abbiamo per fermarli?», si chiedeva un agricoltore a cui è stato imposto di lasciare la sua terra.
Non dimentichiamo poi il recente accordo tra la Corea del Sud e il Madagascar, grazie al quale la coreana Daewoo Logistics ha ottenuto per 99 anni la concessione sul 50 per cento del terreno coltivabile dell'isola: le conseguenze sull'unicità della fauna autoctona sono inimmaginabili.
Globalizzazione, terre e diamanti. Lo studioso Subhabrata Bobby Banerjee ha esaminato insieme ad altri diverse teorie sulla globalizzazione, e come questo concetto è stato rappresentato nella teoria delle organizzazioni come neocolonialismo. Secondo questi studi oggi non è più necessario invadere un Paese militarmente, ma è sufficiente acquistarne le proprietà, le risorse, i terreni, i porti, sottomettendo la popolazione ai desideri delle “corporation”. È il nuovo volto del colonialismo, o neocolonialismo. I terreni, così come le popolazioni che li abitano, diventano la “colonia” del nuovo “signore”, sia esso un soggetto pubblico o privato.
A coniare il termine “neocolonialismo” è stato Kwame Nkrumah, primo presidente del Ghana dopo l'indipendenza, e nel corso degli anni il concetto è stato dibattuto da studiosi e filosofi del calibro di Jean Paul Sartre e Noam Chomsky. Indubbiamente il fenomeno presenta oggi numerose sfaccettature; ma a dipingere particolarmente bene il quadro della situazione è il film Blood Diamond (del 2007, nella foto un'immagine della pellicola). Ambientato in Sierra Leone durante la guerra civile del 1996-2001, la pellicola mostra un Paese dilaniato dalla lotta tra soldati governativi e forze ribelli, connessa con l'estrazione illegale dei diamanti e la violazione dei diritti umani da parte delle società estrattive. Il film si chiude con una conferenza sui “diamanti insanguinati”, in riferimento a quella che si è davvero tenuta a Kimberly (Sudafrica) nel 2000 e che ha portato all'elaborazione del Kimberley Process Certification Scheme (schema di certificazione del processo di Kimberly), mirato a certificare l'origine dei diamanti grezzi in modo da colpire il commercio di quelli legati ai conflitti.
Che cos'ha dunque a che fare col neocolonialismo questo film? Molto semplicemente, denunciando il commercio di pietre preziose connesso alle guerre e i crimini ad esso collegati, mette a nudo ciò che sta davvero accadendo in Africa: pensiamo ad esempio ai computer Apple o ai telefonini Blackberry, fabbricati con terre rare estratte in Congo con metodi che non hanno nulla da invidiare a quelli del colonialismo ottocentesco; o al commercio del cacao in Africa occidentale.
La neocolonizzazione riguarda tutti. Osservatori interni ed esterni al Continente sono d'accordo sul fatto che, nonostante gli indubbi vantaggi, la globalizzazione è inestricabilmente legata alla prosecuzione dello sviluppo delle economie dei Paesi sviluppati, creando nuove forme di controllo coloniale pur nella cosiddetta “era post-coloniale”. La globalizzazione diventa quindi il nuovo colonialismo globale, in quanto persegue gli stessi obiettivi con maggiore efficienza e razionalismo, basato sulla struttura storica del capitalismo.
Ma il neocolonialismo non si limita alle popolazioni del Terzo mondo, poiché l'emergere di una cosiddetta “cultura globale” segna semplicemente il passaggio ad una cultura consumistica. Lo studioso Ankie Hoogvelt sostiene che possiamo fare qualcosa in prima persona: «Siamo direttamente coinvolti. Noi, al centro del sistema capitalistico, siamo la causa e la giustificazione di questo saccheggio. È la nostra stessa umanità ad essere messa in discussione se continuiamo ad approfittare di questo commercio. Dobbiamo agire come fecero, duecento anni addietro, gli abolizionisti che cominciarono a boicottare il consumo del rum e dello zucchero prodotti con la manodopera degli schiavi».
Città Nuova - Nel marzo scorso i titoli di diversi giornali in tutto il mondo hanno puntato il dito verso l'Etiopia, teatro di una corsa ai terreni agricoli su scala globale: la popolazione locale veniva cacciata, mentre investitori stranieri approfittavano delle facilitazioni governative per affittare terreni a prezzi agevolati. Molti si chiedevano come l'Etiopia, uno dei maggiori beneficiari di aiuti alimentari e allo sviluppo a livello mondiale, potesse offrire oltre tre milioni di ettari di foresta vergine a società straniere come Karuturi. Numerose famiglie sono state costrette ad andarsene: «Che potere abbiamo per fermarli?», si chiedeva un agricoltore a cui è stato imposto di lasciare la sua terra.
Non dimentichiamo poi il recente accordo tra la Corea del Sud e il Madagascar, grazie al quale la coreana Daewoo Logistics ha ottenuto per 99 anni la concessione sul 50 per cento del terreno coltivabile dell'isola: le conseguenze sull'unicità della fauna autoctona sono inimmaginabili.
Globalizzazione, terre e diamanti. Lo studioso Subhabrata Bobby Banerjee ha esaminato insieme ad altri diverse teorie sulla globalizzazione, e come questo concetto è stato rappresentato nella teoria delle organizzazioni come neocolonialismo. Secondo questi studi oggi non è più necessario invadere un Paese militarmente, ma è sufficiente acquistarne le proprietà, le risorse, i terreni, i porti, sottomettendo la popolazione ai desideri delle “corporation”. È il nuovo volto del colonialismo, o neocolonialismo. I terreni, così come le popolazioni che li abitano, diventano la “colonia” del nuovo “signore”, sia esso un soggetto pubblico o privato.
A coniare il termine “neocolonialismo” è stato Kwame Nkrumah, primo presidente del Ghana dopo l'indipendenza, e nel corso degli anni il concetto è stato dibattuto da studiosi e filosofi del calibro di Jean Paul Sartre e Noam Chomsky. Indubbiamente il fenomeno presenta oggi numerose sfaccettature; ma a dipingere particolarmente bene il quadro della situazione è il film Blood Diamond (del 2007, nella foto un'immagine della pellicola). Ambientato in Sierra Leone durante la guerra civile del 1996-2001, la pellicola mostra un Paese dilaniato dalla lotta tra soldati governativi e forze ribelli, connessa con l'estrazione illegale dei diamanti e la violazione dei diritti umani da parte delle società estrattive. Il film si chiude con una conferenza sui “diamanti insanguinati”, in riferimento a quella che si è davvero tenuta a Kimberly (Sudafrica) nel 2000 e che ha portato all'elaborazione del Kimberley Process Certification Scheme (schema di certificazione del processo di Kimberly), mirato a certificare l'origine dei diamanti grezzi in modo da colpire il commercio di quelli legati ai conflitti.
Che cos'ha dunque a che fare col neocolonialismo questo film? Molto semplicemente, denunciando il commercio di pietre preziose connesso alle guerre e i crimini ad esso collegati, mette a nudo ciò che sta davvero accadendo in Africa: pensiamo ad esempio ai computer Apple o ai telefonini Blackberry, fabbricati con terre rare estratte in Congo con metodi che non hanno nulla da invidiare a quelli del colonialismo ottocentesco; o al commercio del cacao in Africa occidentale.
La neocolonizzazione riguarda tutti. Osservatori interni ed esterni al Continente sono d'accordo sul fatto che, nonostante gli indubbi vantaggi, la globalizzazione è inestricabilmente legata alla prosecuzione dello sviluppo delle economie dei Paesi sviluppati, creando nuove forme di controllo coloniale pur nella cosiddetta “era post-coloniale”. La globalizzazione diventa quindi il nuovo colonialismo globale, in quanto persegue gli stessi obiettivi con maggiore efficienza e razionalismo, basato sulla struttura storica del capitalismo.
Ma il neocolonialismo non si limita alle popolazioni del Terzo mondo, poiché l'emergere di una cosiddetta “cultura globale” segna semplicemente il passaggio ad una cultura consumistica. Lo studioso Ankie Hoogvelt sostiene che possiamo fare qualcosa in prima persona: «Siamo direttamente coinvolti. Noi, al centro del sistema capitalistico, siamo la causa e la giustificazione di questo saccheggio. È la nostra stessa umanità ad essere messa in discussione se continuiamo ad approfittare di questo commercio. Dobbiamo agire come fecero, duecento anni addietro, gli abolizionisti che cominciarono a boicottare il consumo del rum e dello zucchero prodotti con la manodopera degli schiavi».
(traduzione Chiara Andreola)
di Liliane Mugombozi
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