Il Papa degli ultimi, voce di chi non ha voce. Nei suoi quasi 27 anni di Pontificato e ancora prima come vescovo e sacerdote, Karol Wojtyla si è sempre schierato al fianco degli ultimi. Con i suoi gesti, i suoi viaggi, i suoi discorsi e i suoi documenti, Giovanni Paolo II ha dato vita ad un vero e proprio “Magistero per i poveri” che vi riproponiamo in questo nuovo contributo delal nostra emittente per l’iniziativa promossa dall'Unione Europea di Radiodiffusione (UER) intitolata “Why Poverty?”, speciale giornata di trasmissioni in Eurovisione dedicata al tema della povertà.
RadioVaticana - “Nei volti dei poveri vedo il volto di Cristo”. Per comprendere l’impegno instancabile di Giovanni Paolo II per gli ultimi bisogna partire da qui, da questa frase, ripetuta tante volte dal Beato Wojtyla. Fin dalla gioventù, si scolpiscono nel cuore di Karol le parole del Signore, richiamate dal Vangelo di Matteo: “Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere”. A Wadowice come a Cracovia, alla Cattedra di Pietrocome per le vie del mondo, che percorrerà senza sosta, il Papa va incontro ai poveri, li stringe a sé, diventa la loro voce. La voce di chi non ha voce. Questo amore per loro non è frutto di studio. E’ figlio dell’esperienza. In Polonia, ha conosciuto la miseria causata prima dall’occupazione nazista poi dal regime comunista. E’ stato operaio. Ha toccato con mano la sofferenza di padri costretti a non mangiare per sfamare i figli. Per questo, quando diventa Pontefice è assolutamente naturale per lui esprimere la propria adesione all’opzione preferenziale per i poveri. Una scelta che sottolinea con forza, parlando di fronte alla Curia Romana:
“Colgo volentieri questa occasione per ribadire che l’impegno verso i poveri costituisce un motivo dominante della mia azione pastorale, la costante sollecitudine che accompagna il mio quotidiano servizio al popolo di Dio. Ho fatto e faccio mia tale opzione, mi identifico con essa. E sento che non potrebbe essere altrimenti, giacché questo è l’eterno messaggio del Vangelo: così ha fatto Cristo, così hanno fatto gli apostoli di Cristo, così ha fatto la Chiesa nel corso della sua storia due volte millenaria” (Discorso alla Curia Romana, 21 dicembre 1984)
Giovanni Paolo II, però, – ed è questa la grande novità – non si limita a parlare di povertà a Roma. Va direttamente nei luoghi dove la dignità della persona è sfigurata dalla miseria. In Messico, si commuove nell’ascoltare le parole dei campesinos, in Bolivia indossa il casco di un minatore per mostrare solidarietà a chi rischia la vita ogni giorno in miniera. In una favela di Rio de Janeiro, arriva addirittura a regalare il suo anello episcopale ad una mamma e ai suoi figli. E in Africa, il Papa si commuoverà nel vedere le conseguenze sui bambini di una povertà che non lascia scampo. Per aiutare i popoli africani piegati dalla carestia dà vita anche ad un organismo caritativo, la Fondazione Giovanni Paolo II per il Sahel. Memorabile il suo appello a Ouagadougou, in Burkina Faso, in uno dei suoi primi viaggi apostolici internazionali:
“Je me fais ici la voix de ceus qui n’ont pas de voix, la voix des innocents… Io sono qui la voce di quelli che non hanno voce: la voce degli innocenti morti perché non avevano acqua e pane; la voce dei padri e delle madri che hanno visto morire i loro figli senza capire, o che vedranno sempre nei loro figli le conseguenze della fame patita; la voce delle future generazioni le quali non devono più vivere con la terribile incombente minaccia sulla loro esistenza” (Messa a Ouagadougou, 10 maggio 1980). Giovanni Paolo II diventa, dunque, la voce di chi non ha voce. Una voce potente che risuona nei consessi internazionali, nelle assemblee delle Organizzazioni mondiali a partire dalle Nazioni Unite. Del resto, già nel 1979, rivolgendosi alla Conferenza della FAO, aveva esortato la comunità internazionale ad andare oltre gli “appelli ai sentimenti” e alle “ventate sporadiche e inefficaci di indignazione”:
“Il est fini, en effet, le temps des illusions où l’on croyait… E’ finito il tempo della illusione in cui si credeva di risolvere automaticamente i problemi del sottosviluppo e le differenze di crescita tra i diversi Paesi esportando i modelli industriali e le ideologie dei Paesi sviluppati. E’ finito il tempo del tentativo di garantire il diritto all’alimentazione con programmi di aiuto realizzati mediante il dono delle eccedenze o con programmi di soccorso urgente solo occasionale”. (Discorso alla Fao, 12 novembre 1979). L’attenzione per i poveri, la denuncia dell’egoismo prima causa della povertà è una costante degli interventi magisteriali di Giovanni Paolo II. Al tema della dignità del lavoro, dell’economia centrata sulla persona dedica tre Encicliche: la Laborem Exercens, la Sollicitudo rei socialis e, dopo la fine del comunismo, la Centesimus annus nella quale mette in guardia dagli eccessi di un capitalismo che, uscito vincente dalla Guerra Fredda, rischia di schiacciare i più deboli. La sua cura per i poveri si ritrova disseminata in una miriade di documenti e messaggi. Significativo quanto il Papa scrive nel suo Messaggio per la Quaresima del 1985:
“Quando centinaia di milioni di uomini mancano di cibo, quando milioni di bambini ne vengono irrimediabilmente segnati per il resto della vita, mentre migliaia di essi muoiono, io non posso tacere, noi non possiamo restare silenziosi o inerti”. (Messaggio per la Quaresima del 1985). E Karol Wojtyla non resta inerte. Nel suo infaticabile impegno in difesa degli ultimi, stabilisce una vera e propria alleanza con Madre Teresa di Calcutta. L’una cerca l’altro, la missionaria e il Papa diventano un simbolo globale, anche mediatico, della lotta alla povertà. Qualcuno parla di “Vangelo in technicolor”. E così, quando Giovanni Paolo II si reca in India, nel 1986, non può mancare la visita al “Nirmal Hriday”, la prima casa aperta a Calcutta da Madre Teresa. In questo luogo di sofferenza, ma soprattutto di speranza, il Beato Wojtyla pronuncia parole commosse:
“Nirmal Hriday proclaims the profound dignity of every human… Nirmal Hriday attesta la profonda dignità di ogni essere umano. La cura amorevole che qui vediamo testimonia la certezza che il valore di un essere umano non è misurato con l’utilità dell’ingegno, con la salute o con l’infermità, con l’età, il credo o la razza. La nostra dignità umana ci viene da Dio nostro creatore, a cui immagine siamo stati creati. Nessuna privazione o sofferenza potrà mai rimuovere questa dignità, perché noi siamo sempre preziosi agli occhi del Signore” (Incontro con Madre Teresa a Calcutta, 3 febbraio 1986). Lungo il suo cammino in difesa degli ultimi, Karol Wojtyla trova anche compagni di viaggio inediti per un Papa. Con le rock star Bob Geldof e Bono degli U2, lancia appelli per la cancellazione o almeno la riduzione del debito dei Paesi poveri, vera scure sul destino dei popoli di un terzo del mondo. Del resto, già nel 1985, il Papa aveva chiesto il condono del debito dei Paesi in via di sviluppo in un Messaggio all’assemblea dell’ONU. Tuttavia, è con il Giubileo del 2000 che si fa più pressante l’impegno del Beato Wojtyla per la cancellazione del debito. Una richiesta contenuta anche nella Lettera apostolica Tertio Millennio Adveniente. All’inizio del XXI secolo, dunque, il Papa, stanco e malato, non manca di levare ancora una volta la voce a difesa di chi non ha voce:
“Ogni uomo, ogni popolo, ha diritto a vivere dei frutti della terra. E’ uno scandalo intollerabile, all’inizio del Nuovo Millennio, che moltissime persone siano ancora ridotte alla fame e vivano in condizioni indegne dell’uomo (applausi) Non possiamo più limitarci a riflessioni accademiche: occorre rimuovere questa vergogna dall’umanità con appropriate scelte politiche ed economiche di respiro planetario” (Giubileo mondo agricolo, 11 novembre 2000). Serve, è l’accorato appello negli ultimi anni del suo Pontificato, una “globalizzazione della solidarietà”. Una globalizzazione per la persona fondata su un “codice etico comune”. I primi ad essere chiamati in causa su questo, è il suo avvertimento, sono i leader politici, specie delle nazioni più ricche. A loro Giovanni Paolo II si rivolge idealmente nel discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, quasi un testamento e al tempo stesso una chiamata a mettere insieme le migliori energie per realizzare uno sviluppo che sia davvero per tutti:
“The Church will continue to work with all people of good will… La Chiesa continuerà a operare con tutte le persone di buona volontà per garantire che in questo processo vinca l’umanità tutta e non solo un’elite prospera che controlla la scienza, la tecnologia, la comunicazione e le risorse del pianeta a detrimento della stragrande maggioranza dei suoi abitanti. La Chiesa spera veramente che tutti gli elementi creativi nella società cooperino alla promozione di una globalizzazione al servizio di tutta la persona umana e di tutte le persone”. (Discorso alla Pontificia Accademia Scienze Sociali, 27 aprile 2001)
RadioVaticana - “Nei volti dei poveri vedo il volto di Cristo”. Per comprendere l’impegno instancabile di Giovanni Paolo II per gli ultimi bisogna partire da qui, da questa frase, ripetuta tante volte dal Beato Wojtyla. Fin dalla gioventù, si scolpiscono nel cuore di Karol le parole del Signore, richiamate dal Vangelo di Matteo: “Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere”. A Wadowice come a Cracovia, alla Cattedra di Pietrocome per le vie del mondo, che percorrerà senza sosta, il Papa va incontro ai poveri, li stringe a sé, diventa la loro voce. La voce di chi non ha voce. Questo amore per loro non è frutto di studio. E’ figlio dell’esperienza. In Polonia, ha conosciuto la miseria causata prima dall’occupazione nazista poi dal regime comunista. E’ stato operaio. Ha toccato con mano la sofferenza di padri costretti a non mangiare per sfamare i figli. Per questo, quando diventa Pontefice è assolutamente naturale per lui esprimere la propria adesione all’opzione preferenziale per i poveri. Una scelta che sottolinea con forza, parlando di fronte alla Curia Romana:
“Colgo volentieri questa occasione per ribadire che l’impegno verso i poveri costituisce un motivo dominante della mia azione pastorale, la costante sollecitudine che accompagna il mio quotidiano servizio al popolo di Dio. Ho fatto e faccio mia tale opzione, mi identifico con essa. E sento che non potrebbe essere altrimenti, giacché questo è l’eterno messaggio del Vangelo: così ha fatto Cristo, così hanno fatto gli apostoli di Cristo, così ha fatto la Chiesa nel corso della sua storia due volte millenaria” (Discorso alla Curia Romana, 21 dicembre 1984)
Giovanni Paolo II, però, – ed è questa la grande novità – non si limita a parlare di povertà a Roma. Va direttamente nei luoghi dove la dignità della persona è sfigurata dalla miseria. In Messico, si commuove nell’ascoltare le parole dei campesinos, in Bolivia indossa il casco di un minatore per mostrare solidarietà a chi rischia la vita ogni giorno in miniera. In una favela di Rio de Janeiro, arriva addirittura a regalare il suo anello episcopale ad una mamma e ai suoi figli. E in Africa, il Papa si commuoverà nel vedere le conseguenze sui bambini di una povertà che non lascia scampo. Per aiutare i popoli africani piegati dalla carestia dà vita anche ad un organismo caritativo, la Fondazione Giovanni Paolo II per il Sahel. Memorabile il suo appello a Ouagadougou, in Burkina Faso, in uno dei suoi primi viaggi apostolici internazionali:
“Je me fais ici la voix de ceus qui n’ont pas de voix, la voix des innocents… Io sono qui la voce di quelli che non hanno voce: la voce degli innocenti morti perché non avevano acqua e pane; la voce dei padri e delle madri che hanno visto morire i loro figli senza capire, o che vedranno sempre nei loro figli le conseguenze della fame patita; la voce delle future generazioni le quali non devono più vivere con la terribile incombente minaccia sulla loro esistenza” (Messa a Ouagadougou, 10 maggio 1980). Giovanni Paolo II diventa, dunque, la voce di chi non ha voce. Una voce potente che risuona nei consessi internazionali, nelle assemblee delle Organizzazioni mondiali a partire dalle Nazioni Unite. Del resto, già nel 1979, rivolgendosi alla Conferenza della FAO, aveva esortato la comunità internazionale ad andare oltre gli “appelli ai sentimenti” e alle “ventate sporadiche e inefficaci di indignazione”:
“Il est fini, en effet, le temps des illusions où l’on croyait… E’ finito il tempo della illusione in cui si credeva di risolvere automaticamente i problemi del sottosviluppo e le differenze di crescita tra i diversi Paesi esportando i modelli industriali e le ideologie dei Paesi sviluppati. E’ finito il tempo del tentativo di garantire il diritto all’alimentazione con programmi di aiuto realizzati mediante il dono delle eccedenze o con programmi di soccorso urgente solo occasionale”. (Discorso alla Fao, 12 novembre 1979). L’attenzione per i poveri, la denuncia dell’egoismo prima causa della povertà è una costante degli interventi magisteriali di Giovanni Paolo II. Al tema della dignità del lavoro, dell’economia centrata sulla persona dedica tre Encicliche: la Laborem Exercens, la Sollicitudo rei socialis e, dopo la fine del comunismo, la Centesimus annus nella quale mette in guardia dagli eccessi di un capitalismo che, uscito vincente dalla Guerra Fredda, rischia di schiacciare i più deboli. La sua cura per i poveri si ritrova disseminata in una miriade di documenti e messaggi. Significativo quanto il Papa scrive nel suo Messaggio per la Quaresima del 1985:
“Quando centinaia di milioni di uomini mancano di cibo, quando milioni di bambini ne vengono irrimediabilmente segnati per il resto della vita, mentre migliaia di essi muoiono, io non posso tacere, noi non possiamo restare silenziosi o inerti”. (Messaggio per la Quaresima del 1985). E Karol Wojtyla non resta inerte. Nel suo infaticabile impegno in difesa degli ultimi, stabilisce una vera e propria alleanza con Madre Teresa di Calcutta. L’una cerca l’altro, la missionaria e il Papa diventano un simbolo globale, anche mediatico, della lotta alla povertà. Qualcuno parla di “Vangelo in technicolor”. E così, quando Giovanni Paolo II si reca in India, nel 1986, non può mancare la visita al “Nirmal Hriday”, la prima casa aperta a Calcutta da Madre Teresa. In questo luogo di sofferenza, ma soprattutto di speranza, il Beato Wojtyla pronuncia parole commosse:
“Nirmal Hriday proclaims the profound dignity of every human… Nirmal Hriday attesta la profonda dignità di ogni essere umano. La cura amorevole che qui vediamo testimonia la certezza che il valore di un essere umano non è misurato con l’utilità dell’ingegno, con la salute o con l’infermità, con l’età, il credo o la razza. La nostra dignità umana ci viene da Dio nostro creatore, a cui immagine siamo stati creati. Nessuna privazione o sofferenza potrà mai rimuovere questa dignità, perché noi siamo sempre preziosi agli occhi del Signore” (Incontro con Madre Teresa a Calcutta, 3 febbraio 1986). Lungo il suo cammino in difesa degli ultimi, Karol Wojtyla trova anche compagni di viaggio inediti per un Papa. Con le rock star Bob Geldof e Bono degli U2, lancia appelli per la cancellazione o almeno la riduzione del debito dei Paesi poveri, vera scure sul destino dei popoli di un terzo del mondo. Del resto, già nel 1985, il Papa aveva chiesto il condono del debito dei Paesi in via di sviluppo in un Messaggio all’assemblea dell’ONU. Tuttavia, è con il Giubileo del 2000 che si fa più pressante l’impegno del Beato Wojtyla per la cancellazione del debito. Una richiesta contenuta anche nella Lettera apostolica Tertio Millennio Adveniente. All’inizio del XXI secolo, dunque, il Papa, stanco e malato, non manca di levare ancora una volta la voce a difesa di chi non ha voce:
“Ogni uomo, ogni popolo, ha diritto a vivere dei frutti della terra. E’ uno scandalo intollerabile, all’inizio del Nuovo Millennio, che moltissime persone siano ancora ridotte alla fame e vivano in condizioni indegne dell’uomo (applausi) Non possiamo più limitarci a riflessioni accademiche: occorre rimuovere questa vergogna dall’umanità con appropriate scelte politiche ed economiche di respiro planetario” (Giubileo mondo agricolo, 11 novembre 2000). Serve, è l’accorato appello negli ultimi anni del suo Pontificato, una “globalizzazione della solidarietà”. Una globalizzazione per la persona fondata su un “codice etico comune”. I primi ad essere chiamati in causa su questo, è il suo avvertimento, sono i leader politici, specie delle nazioni più ricche. A loro Giovanni Paolo II si rivolge idealmente nel discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, quasi un testamento e al tempo stesso una chiamata a mettere insieme le migliori energie per realizzare uno sviluppo che sia davvero per tutti:
“The Church will continue to work with all people of good will… La Chiesa continuerà a operare con tutte le persone di buona volontà per garantire che in questo processo vinca l’umanità tutta e non solo un’elite prospera che controlla la scienza, la tecnologia, la comunicazione e le risorse del pianeta a detrimento della stragrande maggioranza dei suoi abitanti. La Chiesa spera veramente che tutti gli elementi creativi nella società cooperino alla promozione di una globalizzazione al servizio di tutta la persona umana e di tutte le persone”. (Discorso alla Pontificia Accademia Scienze Sociali, 27 aprile 2001)
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