In occasione del 25° anniversario della sua ordinazione, riportiamo l’intervista di Andrea Canton a Padre Renato Zilio, missionario scalabriniano che ha fatto della missionarietà il suo scopo di vita
D - Lei è un uomo di frontiera, che ha dedicato espressamente il suo ministero, all'interno della congregazione dei missionari scalabriani, alla prossimità con i migranti, con i "cittadini di tutto il mondo", ma festeggerà il 25esimo di ordinazione proprio a Dolo, paese dove è nato e cresciuto. Qual è il suo legame con il suo paese d'origine?
R - È il nido da cui provengo. “Home, sweet home!”, ripetono gli inglesi, soprattutto se ha la poesia e l’incanto della Riviera del Brenta. Luogo da cui si parte e a cui si ritorna, esso permette quel movimento di sistole e di diastole che fa vivere il cuore, la vita di un migrante come me: ritorno a casa per sentirmi, in fondo, un po’ estraneo, riparto per sentire altrove la mancanza del calore del mio nido. Così imparo a capire come ogni migrante abbia un cuore più grande del normale: comincia, infatti, ad amare con lo stesso amore la terra di origine e la terra di accoglienza.
D - I suoi compaesani l'hanno sostenuta nei suoi anni di missione?
R - Mi rivedono con gioia, è vero, mi sentono vicino, anche se vengo da lontano. Certo, sarebbe stupendo se esistesse come altrove un gruppo missionario che fa da finestra sul mondo, che respira il legame con i missionari, e che dà un impulso, come un vero pacemaker, alla vita a volte troppo “regolare” di una parrocchia. Qualsiasi missionario nella nostra diocesi se fosse “una luce posta sopra il moggio” potrebbe arricchire la fede, stimolare l’apertura di mente e di cuore di tutta una comunità.
D - In cosa consiste l'importanza delle radici stabili per un cittadino del mondo, per un uomo di frontiera?
R - Le radici sono importanti quanto le ali. È vero, mi sento un po’ francese, per i miei lunghi studi teologici a Parigi, un po’ portoghese, un po’ africano, un po’ orientale... per tutti i paesi dove sono vissuto e di cui ho respirato l’aria, i valori e il ritmo del vivere. Ma, in fondo, mi sento un veneto originale, aperto sul mondo.
D - Parigi, Londra, Ginevra, il deserto del Sahara, il monastero cinese di Louyang, i volti degli studenti di Parigi e quelli dei lavoratori delle comunità di migranti in 25 anni di ministero sacerdotale. Quali esperienze porterà ai suoi parrocchiani? Quali volti, in particolare, di quelli descritti nel suo libro?
R - Ricorderò soprattutto i giovani, figli di emigranti, che ho accompagnato per anni in ritiro nel Sahara per far loro cambiare mondo, come lo era stato per i loro genitori con quell’avventura di emigrare. Quando si celebrava l’eucaristia sulla duna più alta in mezzo al silenzio impressionante del deserto... era una messa sul mondo! Come dimenticare quando al momento del perdono posavano l’orecchio su questa sabbia rossastra, in pieno Sahara, per auscultare la terra, come il ventre di una donna... Era per provare a sentire il pianto di milioni di uomini, donne e bambini, di esistenze infelici sulla terra, vite inumane, impossibili, sradicate dagli eventi e forse migranti. Per chiedere perdono a Dio di avere un cuore inconsapevole e insensibile alle tragedie del mondo. Al momento della pace era vedere questi giovani affondare le mani e le braccia il più possibile nella sabbia, nel tentativo, in mezzo al deserto, di dare la mano a tutti gli uomini della terra, per esprimere le lunghe solidarietà che avrebbero voluto far nascere... Penso con commozione a questi tanti giovani che il deserto ha consolidato o trasformato nei loro aspetti più sani e più belli. Alcuni sono ritornati in Africa per un periodo di volontariato, altri, per lo stesso motivo, in Brasile, a Salvador de Bahia, altri ancora… Una lezione magnifica del deserto, che in loro ha saputo fiorire e dare frutto.
D - Riferendosi alle frontiere, nel suo libro, ha menzionato non solo i confini territoriali varcati dai popoli che ha incontrato, ma anche le frontiere culturali. Incontrare le differenze l'ha arricchita, da quanto emerge dalla lettura del suo libro. Cosa consiglierebbe all'Italia e al nostro Nord Est, sempre più multietnici e multiculturali?
R - Di imparare a memoria quel proverbio africano che dice:”Se hai le mie stesse idee sei mio fratello, sei hai idee differenti dalle mie sei due volte mio fratello, perchè cosí scambiando posso crescere in umanità”. Sì, siamo troppo appassionati del simile, dell’analogia, della cerchia “dei nostri”, dovremmo imparare la ricchezza, i valori di umanità di chi viene da altri orizzonti, da altri mondi o che semplicemente porta altre idee. È la sfida di domani. Imparare ad essere curiosi, sensibili all’altro, capaci di dialogo, appassionati di costruire insieme ad altri qualcosa di nuovo. Il mondo ormai è in casa nostra, si fa invito ad uscire dal nostro piccolo mondo antico. Andare alla frontiera, allora, delle nostre energie, della nostra creatività e del nostro mondo per integrare l’altro, non escluderlo, per costruire un mondo differente. Dio ci attende alla frontiera. E le frontiere le abbiamo in casa, nelle nostre comunità siamo in costante contatto con l'altro, il diverso, che troppo spesso è visto come occasione d'inciampo o di minaccia e non di crescita, di dialogo o di confronto.
D - Lei è un uomo di frontiera, che ha dedicato espressamente il suo ministero, all'interno della congregazione dei missionari scalabriani, alla prossimità con i migranti, con i "cittadini di tutto il mondo", ma festeggerà il 25esimo di ordinazione proprio a Dolo, paese dove è nato e cresciuto. Qual è il suo legame con il suo paese d'origine?
R - È il nido da cui provengo. “Home, sweet home!”, ripetono gli inglesi, soprattutto se ha la poesia e l’incanto della Riviera del Brenta. Luogo da cui si parte e a cui si ritorna, esso permette quel movimento di sistole e di diastole che fa vivere il cuore, la vita di un migrante come me: ritorno a casa per sentirmi, in fondo, un po’ estraneo, riparto per sentire altrove la mancanza del calore del mio nido. Così imparo a capire come ogni migrante abbia un cuore più grande del normale: comincia, infatti, ad amare con lo stesso amore la terra di origine e la terra di accoglienza.
D - I suoi compaesani l'hanno sostenuta nei suoi anni di missione?
R - Mi rivedono con gioia, è vero, mi sentono vicino, anche se vengo da lontano. Certo, sarebbe stupendo se esistesse come altrove un gruppo missionario che fa da finestra sul mondo, che respira il legame con i missionari, e che dà un impulso, come un vero pacemaker, alla vita a volte troppo “regolare” di una parrocchia. Qualsiasi missionario nella nostra diocesi se fosse “una luce posta sopra il moggio” potrebbe arricchire la fede, stimolare l’apertura di mente e di cuore di tutta una comunità.
D - In cosa consiste l'importanza delle radici stabili per un cittadino del mondo, per un uomo di frontiera?
R - Le radici sono importanti quanto le ali. È vero, mi sento un po’ francese, per i miei lunghi studi teologici a Parigi, un po’ portoghese, un po’ africano, un po’ orientale... per tutti i paesi dove sono vissuto e di cui ho respirato l’aria, i valori e il ritmo del vivere. Ma, in fondo, mi sento un veneto originale, aperto sul mondo.
D - Parigi, Londra, Ginevra, il deserto del Sahara, il monastero cinese di Louyang, i volti degli studenti di Parigi e quelli dei lavoratori delle comunità di migranti in 25 anni di ministero sacerdotale. Quali esperienze porterà ai suoi parrocchiani? Quali volti, in particolare, di quelli descritti nel suo libro?
R - Ricorderò soprattutto i giovani, figli di emigranti, che ho accompagnato per anni in ritiro nel Sahara per far loro cambiare mondo, come lo era stato per i loro genitori con quell’avventura di emigrare. Quando si celebrava l’eucaristia sulla duna più alta in mezzo al silenzio impressionante del deserto... era una messa sul mondo! Come dimenticare quando al momento del perdono posavano l’orecchio su questa sabbia rossastra, in pieno Sahara, per auscultare la terra, come il ventre di una donna... Era per provare a sentire il pianto di milioni di uomini, donne e bambini, di esistenze infelici sulla terra, vite inumane, impossibili, sradicate dagli eventi e forse migranti. Per chiedere perdono a Dio di avere un cuore inconsapevole e insensibile alle tragedie del mondo. Al momento della pace era vedere questi giovani affondare le mani e le braccia il più possibile nella sabbia, nel tentativo, in mezzo al deserto, di dare la mano a tutti gli uomini della terra, per esprimere le lunghe solidarietà che avrebbero voluto far nascere... Penso con commozione a questi tanti giovani che il deserto ha consolidato o trasformato nei loro aspetti più sani e più belli. Alcuni sono ritornati in Africa per un periodo di volontariato, altri, per lo stesso motivo, in Brasile, a Salvador de Bahia, altri ancora… Una lezione magnifica del deserto, che in loro ha saputo fiorire e dare frutto.
D - Riferendosi alle frontiere, nel suo libro, ha menzionato non solo i confini territoriali varcati dai popoli che ha incontrato, ma anche le frontiere culturali. Incontrare le differenze l'ha arricchita, da quanto emerge dalla lettura del suo libro. Cosa consiglierebbe all'Italia e al nostro Nord Est, sempre più multietnici e multiculturali?
R - Di imparare a memoria quel proverbio africano che dice:”Se hai le mie stesse idee sei mio fratello, sei hai idee differenti dalle mie sei due volte mio fratello, perchè cosí scambiando posso crescere in umanità”. Sì, siamo troppo appassionati del simile, dell’analogia, della cerchia “dei nostri”, dovremmo imparare la ricchezza, i valori di umanità di chi viene da altri orizzonti, da altri mondi o che semplicemente porta altre idee. È la sfida di domani. Imparare ad essere curiosi, sensibili all’altro, capaci di dialogo, appassionati di costruire insieme ad altri qualcosa di nuovo. Il mondo ormai è in casa nostra, si fa invito ad uscire dal nostro piccolo mondo antico. Andare alla frontiera, allora, delle nostre energie, della nostra creatività e del nostro mondo per integrare l’altro, non escluderlo, per costruire un mondo differente. Dio ci attende alla frontiera. E le frontiere le abbiamo in casa, nelle nostre comunità siamo in costante contatto con l'altro, il diverso, che troppo spesso è visto come occasione d'inciampo o di minaccia e non di crescita, di dialogo o di confronto.
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