venerdì, gennaio 25, 2013
Nel 2012 la comunità scientifica dei geologi ha rivisto il Geological Time Scale, la scala geocronologia del nostro pianeta (la cui ultima rivisitazione risale al 2004), che costituisce il quadro globale di conoscenze che abbiamo sin qui acquisito, fondamentale per decifrare la storia del nostro pianeta 

GreenReport - Tutte le ricerche mirate a conoscere meglio la cronostratigrafia delle formazioni geologiche terrestri ci aiutano ad affinare la scala del tempo geologico del pianeta che gli studiosi mettono a punto classificandola in eoni, ere e periodi, datandoli e cercando di interpretare le straordinarie vicissitudini che la Terra ha attraversato in tutti i suoi 4,6 miliardi di anni di vita. Il Geological Time Scale è ratificato dall'International Commission on Stratigraphy e dall'International Union of Geological Sciences (IUGS, www.iugs.org). I due volumi che riassumono, con tutti gli approfondimenti aggiornati necessari, il Geological Time Scale, sono stati pubblicati nel 2012, dai quattro noti geologi F.M Gradstein, J.G. Ogg, Mark Schmitz e Gabi Ogg che da tanti anni studiano la scala geocronologia, con il titolo "The Geological Time Scale 2012" pubblicato da Elsevier. In questa affascinante messa a punto del problema i tre ben noti esperti Jan Zalasiewicz, Paul Crutzen e Will Steffen hanno pubblicato un apposito capitolo sull'Antropocene, il nuovo periodo geologico proposto sin dal 2000 da Crutzen, premio Nobel per la chimica, che dimostra l'unicità e la pervasività dell'intervento umano, ormai equiparato dagli scienziati agli effetti prodotti dalle grandi forze della natura, in un vero e proprio "battito di ciglio" geologico, dalla Rivoluzione Industriale ad oggi. Come ho più volte ricordato nelle pagine di questa rubrica, esiste un processo formale di riconoscimento ufficiale del periodo dell'Antropocene proprio presso la International Commission on Stratigraphy con un Working Group formatosi ad hoc e presieduto proprio dal geologo Jan Zalasiewicz (vedasi http://www.quaternary.stratigraphy.org.uk/workinggroups/anthropocene). La consapevolezza dell'insostenibile impatto che la specie umana esercita sui sistemi naturali che costituiscono la base stessa della nostra sopravvivenza è ormai molto avanzata nella comunità scientifica internazionale che si occupa di cambiamenti globali tanto che sempre nel 2012 è stato lanciato un sito divulgativo sull'Antropocene (vedasi www.anthropocene.info) ed un breve filmato sull'Antropocene ha aperto la Conferenza delle Nazioni Unite sullo Sviluppo Sostenibile (www.uncsd2012.org), svoltasi a Rio de Janeiro nel giugno 2012. Inoltre il 2012 è stato il nono anno più caldo come rilevato dalla serie storica dei dati raccolti a partire dal 1880. I dieci anni più caldi negli ultimi 132 si sono verificati tutti nell'arco di tempo che va dal 1998 a oggi. L'ultimo a essere più freddo rispetto alla media è stato il 1976. La messa a punto di questi dati, realizzata come ogni anno, dal prestigioso Goddard Institute for Space Studies (GISS) della NASA (vedasi www.giss.nasa.gov) , diretto dal grande climatologo Jim Hansen nonché da altri autorevoli istituti internazionali, indica che il riscaldamento su scala globale prosegue imperterrito e che è ormai improcrastinabile agire. La NASA ha diffuso la mappa del 2012 riferita alle anomalie sulle temperature rilevate dalle sue strumentazioni. In questa mappa le aree rosse e le aree blu mostrano rispettivamente le zone più calde e più fredde rispetto alla media registrata tra il 1951 e il 1980. La temperatura media nel 2012 è stata pari a 14,6 °C, circa 0,55 °C più alta rispetto alla media del periodo di riferimento del Novecento. Mediamente, la temperatura della superficie terrestre è aumentata di 0,8 °C dal 1880 ad oggi, e buona parte del cambiamento si è verificato negli ultimi 40 anni. Il dato di 0,8 °C indica il riscaldamento medio della superficie terrestre, mentre le temperature su scala locale fluttuano in funzione degli assetti meteorologici specifici (vedasi sul seguente sito un quadro riassuntivo della situazione messo a punto dalla NASA. http://climate.nasa.gov/key_indicators/ che riguarda non solo la superficie media della temperatura terrestre ma anche altri andamenti di trend chiave per comprendere il cambiamento climatico). In un recente studio apparso sui "Proceedings of the National Academy of Sciences", dal titolo "Persistent effects of a severe drought on Amazonian forest canopy" elaborato da Sassan Saatchi del Jet Propulsion Laboratory e da Salvi Asefi-Najafabady, Yadvinder Malhi, Luiz E. O. C. Aragão, Liana O. Anderson, Ranga B. Myneni e Ramakrishna Nemani appartenenti a diversi istituti di ricerca di diverse Università, viene documentata la persistente sofferenza della foresta amazzonica a causa dei danni provocati dai cambiamenti climatici. I ricercatori sottolineano come un'area amazzonica equivalente alla superficie della California non sembra più capace di riprendersi dagli effetti dei numerosi periodi di siccità subiti negli ultimi anni. Sono state analizzate le immagini satellitari, tra il 2000 e il 2009, che hanno misurato sia la quantità' di pioggia che la struttura della volta della foresta. Durante l'estate del 2005 un'area di più di 700.000 chilometri quadrati nella parte sudoccidentale della foresta ha subito una siccità molto grave, che ha causato modificazioni nel fogliame della volta degli alberi (la canopy) e corrispondenti anche alla perdita di rami e di alberi interi. Metà di quest'area non e' riuscita a riprendersi fino al 2010, anno, purtroppo, nel quale si è verificata un'altra importante siccità. Secondo lo studio il ripetersi delle fasi di siccità con sempre maggiore frequenza, che rappresenta uno dei numerosi effetti dei cambiamenti climatici, sta indebolendo la resistenza e la resilienza di ampie porzioni della foresta. Secondo le analisi svolte dai ricercatori, nel caso si dovessero verificare ulteriori situazioni di siccità intensa nel futuro, con frequenze di 5-10 anni, ampie porzioni della foresta saranno danneggiate senza avere il tempo di riprendersi. Da diversi anni molti studiosi sono infatti profondamente preoccupati delle reazioni della foresta amazzonica ai cambiamenti climatici, tanto da aver individuato in questo caso, uno dei cosiddetti Tipping Points (punto critico) registrati a livello planetario. Una volta sorpassato il "punto critico", come ho più volte illustrato nelle pagine di questa rubrica, si producono effetti a cascata difficilmente gestibili dall'intervento umano. Gli scienziati sono preoccupati anche del fatto che i cambiamenti climatici possano portare a condizioni di sempre crescente aridità (associate all'intensificarsi delle siccità estreme) in Amazzonia, che causerebbero il rilascio del carbonio dalle foreste della regione all'atmosfera. La gravissima siccità del 2005 ha ancor più messo in evidenza questo problema con conseguenze così devastanti che il governo ha dovuto dichiarare lo stato di emergenza per la maggior parte dell'area. La siccità ha portato a una massiccia emissione di carbonio, per una quantità di 0,8-2,6 miliardi di tonnellate nell'atmosfera, paragonabile alle emissioni globali di CO2 da combustibili fossili del 2005, di 7,4 miliardi di carbonio come dimostrato dallo studio pubblicato da Lewis, Brando, Phillips, van der Heijden e Nepstad su "Science" nel 2011 dal titolo "The 2010 Amazon drought". Nel 2009, il Wwf aveva già inserito la possibilità di un aumento della frequenza delle siccità estreme in Amazzonia, e del relativo deperimento forestale, fra i "punti critici" che potrebbero essere oltrepassati nei prossimi decenni nell'ambito dei cambiamenti climatici, con impatti significativi entro la prima metà di questo secolo (vedasi il rapporto pubblicato nel 2009 dai noti studiosi Tim Lenton, A. Footitt e A. Dlugolecki "Major Tipping Points in the Earth's Climate System and Consequences for the Insurance Sector WWF- Allianz) . L'anno successivo (2010), un'altra gravissima siccità ha colpito la regione, causando questa volta emissioni ancora maggiori, calcolate fra 1,2 e 3,4 miliardi di tonnellate di carbonio. Le due recenti siccità in Amazzonia dimostrano un meccanismo in base al quale le foreste tropicali dell'America meridionale, pur rimanendo intatte, potrebbero cambiare ruolo, passando dalla capacità di sequestrare l'eccesso di anidride carbonica nell'atmosfera ad accelerare il fenomeno, come confermato anche da Lewis e gli altri studiosi nel lavoro apparso su "Science".Se tali siccità dovessero continuare, l'epoca in cui le foreste amazzoniche intatte attutivano l'incremento di anidride carbonica nell'atmosfera potrebbe terminare definitivamente. Riusciremo finalmente a vedere reazioni politiche adeguate a queste sfide planetarie nel 2013?

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