L’avanzata islamista in Mali porterà ad un cambiamento della strategia europea?
di Patrizio Ricci
Per capire quando sta avvenendo in Mali dobbiamo fare una necessaria premessa: nella guerra libica i gruppi combattenti ispirati o legati direttamente ad Al Qaeda hanno avuto un ruolo preponderante sia nella preparazione dell’insurrezione sia nel suo svolgimento, e gli alleati dell’operazione ‘Uniti per proteggere’ lo sapevano. Già alla fine del conflitto sul tribunale di Bengasi sventolava la bandiera di Al Qaeda, che ha avuto un ruolo significativo nella caduta del Rais. E’ utile ricordare che per dare l’annuncio dell’uccisione di Gheddafi è stato scelto Abdul Hakim Belhadj il comandante militare di Tripoli, uno degli uomini più importanti coinvolti nella jihad afghana contro l'Unione Sovietica alla fine degli anni Ottanta. Belhadj è stato un combattente impegnato anche in seguito per la jihad in Pakistan, in Afghanistan, in Turchia, in Sudan e nelle precedenti insurrezioni armate in Libia. Catturato, imprigionato e torturato dalla Cia nel 2004, fu rilasciato giusto in tempo per partecipare di nuovo all’insurrezione del 2011. Di lui ha detto il New York Times: "È un alleato riconoscente degli Stati Uniti e della Nato". E’ evidente che è un alleato, ma è anche vero che è soprattutto un combattente per la Jihad e non per la democrazia: comunque è il riconoscimento del peso che i fondamentalisti hanno nel paese. Quanto possano agire indisturbati è dimostrato dall’attacco all’ambasciata USA (durata alcune ore) in cui è stato ucciso l’ambasciatore Stevens: è stata la reazione della milizia Ansar Al-Sharia per l’uccisione da parte di un drone USA in Pakistan del n° 2 di al Qaeda Abu al-Libi. Sappiamo che poi c’è stato l’attentato al console italiano che ha avuto come conseguenza la chiusura di quasi tutti i consolati occidentali.
Ora, se non si è sicuri a Bengasi, sede del Parlamento, non è meglio nel resto del paese, dove spadroneggiano ben 1.700 milizie armate che non rispondono al governo centrale e non vogliono confluire nel nuovo esercito nazionale: ognuna di esse esercita la sua autorità su un pezzo di territorio, un villaggio o una città, come nel caso di Derna, considerata la principale roccaforte degli islamici.
Ma che c’entra il Mali? C’entra perché solo oggi, con l’intervento francese, forse si sta cominciando a riflettere sull’opera di destabilizzazione provocata dalle cosiddette guerre “umanitarie”. Nella sfortunata ipotesi che davvero i governi occidentali non abbiano ancora capito cosa hanno combinato, sicuramente l’ha capito il presidente del Mali, improvvisamente alle prese con le centinaia di uomini di etnia tuareg sfuggiti alla vendetta della ‘nuova Libia’ e che una volta rientrati in patria, sradicati e senza prospettive (ma ben armati), si sono uniti alla guerriglia indipendentista supportata dai fondamentalisti di Al Qaeda nel Maghreb Islamico (AQMI).
Già da un anno le forze jihadiste avevano il pieno controllo delle più importanti città nel nord del Paese, nella regione dell'Azawad. La situazione si è fatta più critica nelle ultime settimane: quando gli indipendentisti jihdisti stavano ormai per prendere la capitale Bamako, l’Armè francese è arrivata appena in tempo per scongiurare che l’ex-colonia si trasformasse in un califfato islamico. Come abbiamo visto, la minaccia è stata per il momento respinta, ma ha scatenato la ritorsione di Al Qaeda, decisa a vendicarsi anche in Europa.
La situazione è complessa, la guerriglia a nord preme con i militanti di Ansar Din: ci sono jihadisti, indipendentisti, qaedisti, reduci dell’esercito di Gheddafi; sono forze ben equipaggiate e addestrate che uniscono alla guerriglia l’attività del traffico di droga e il rapimento di occidentali. Recentemente sono giunte notizie che ingarbugliano ancor più la matassa: alcuni giornali francesi e algerini riferiscono che fonti dell'intelligence francese hanno raccolto prove secondo cui Doha avrebbe fornito un sostegno finanziario a tutti e tre i principali gruppi armati nel nord del Mali.
E’ chiaro comunque che stiamo vedendo i frutti velenosi di un atteggiamento ambiguo: la sponsorizzazione della guerra libica è stata l’occasione per rafforzare l'islamismo interno e per esportarlo. Come per un effetto domino, il fenomeno del fondamentalismo si è spostato nel nord Africa ed ora più vicino a noi, sul Mediterraneo. Non preannuncia certo niente di buono la sfida che Al Qaeda ha lanciato con la presa di ostaggi nel pozzo estrattivo della BP in Algeria. Ne sa qualcosa il governo algerino che da metà degli anni ‘90 è impegnato in una guerra sanguinosa contro gli estremisti del Fronte Islamico di Salvezza (FIS) che ha causato finora tra i 100.000 ed i 150.000 morti. Adesso i salafiti premono anche da est e da sud ed hanno minacciato anche l’Europa per l’intervento francese.
Le dinamiche del pensiero delle diplomazie occidentali lasciano perplessi: che senso ha far proliferare Al Qaeda in Libia per poi combatterla in Mali ed infine appoggiarla in Siria contro Assad (dove prende sempre più ‘piede’ la formazione terroristica jihadista Al- Nousra)? Bisognerebbe responsabilmente chiarire le ambiguità che hanno contrassegnato le politiche neocolonialiste inglesi e francesi degli ultimi anni, altrimenti si farà sempre più concreto il rischio di riproporre come soluzioni gli stessi ‘metodi’ machiavellici che hanno portato alla situazione attuale.
La questione è aperta ed è molto delicata. Tuttavia qui da noi l’attenzione è scarsa: in piena campagna elettorale, nei programmi e nei dibattiti non possiamo non notare che della Libia, del Mali e di politica estera in generale non ce n’è neanche l’ombra.
di Patrizio Ricci
Per capire quando sta avvenendo in Mali dobbiamo fare una necessaria premessa: nella guerra libica i gruppi combattenti ispirati o legati direttamente ad Al Qaeda hanno avuto un ruolo preponderante sia nella preparazione dell’insurrezione sia nel suo svolgimento, e gli alleati dell’operazione ‘Uniti per proteggere’ lo sapevano. Già alla fine del conflitto sul tribunale di Bengasi sventolava la bandiera di Al Qaeda, che ha avuto un ruolo significativo nella caduta del Rais. E’ utile ricordare che per dare l’annuncio dell’uccisione di Gheddafi è stato scelto Abdul Hakim Belhadj il comandante militare di Tripoli, uno degli uomini più importanti coinvolti nella jihad afghana contro l'Unione Sovietica alla fine degli anni Ottanta. Belhadj è stato un combattente impegnato anche in seguito per la jihad in Pakistan, in Afghanistan, in Turchia, in Sudan e nelle precedenti insurrezioni armate in Libia. Catturato, imprigionato e torturato dalla Cia nel 2004, fu rilasciato giusto in tempo per partecipare di nuovo all’insurrezione del 2011. Di lui ha detto il New York Times: "È un alleato riconoscente degli Stati Uniti e della Nato". E’ evidente che è un alleato, ma è anche vero che è soprattutto un combattente per la Jihad e non per la democrazia: comunque è il riconoscimento del peso che i fondamentalisti hanno nel paese. Quanto possano agire indisturbati è dimostrato dall’attacco all’ambasciata USA (durata alcune ore) in cui è stato ucciso l’ambasciatore Stevens: è stata la reazione della milizia Ansar Al-Sharia per l’uccisione da parte di un drone USA in Pakistan del n° 2 di al Qaeda Abu al-Libi. Sappiamo che poi c’è stato l’attentato al console italiano che ha avuto come conseguenza la chiusura di quasi tutti i consolati occidentali.
Ora, se non si è sicuri a Bengasi, sede del Parlamento, non è meglio nel resto del paese, dove spadroneggiano ben 1.700 milizie armate che non rispondono al governo centrale e non vogliono confluire nel nuovo esercito nazionale: ognuna di esse esercita la sua autorità su un pezzo di territorio, un villaggio o una città, come nel caso di Derna, considerata la principale roccaforte degli islamici.
Ma che c’entra il Mali? C’entra perché solo oggi, con l’intervento francese, forse si sta cominciando a riflettere sull’opera di destabilizzazione provocata dalle cosiddette guerre “umanitarie”. Nella sfortunata ipotesi che davvero i governi occidentali non abbiano ancora capito cosa hanno combinato, sicuramente l’ha capito il presidente del Mali, improvvisamente alle prese con le centinaia di uomini di etnia tuareg sfuggiti alla vendetta della ‘nuova Libia’ e che una volta rientrati in patria, sradicati e senza prospettive (ma ben armati), si sono uniti alla guerriglia indipendentista supportata dai fondamentalisti di Al Qaeda nel Maghreb Islamico (AQMI).
Già da un anno le forze jihadiste avevano il pieno controllo delle più importanti città nel nord del Paese, nella regione dell'Azawad. La situazione si è fatta più critica nelle ultime settimane: quando gli indipendentisti jihdisti stavano ormai per prendere la capitale Bamako, l’Armè francese è arrivata appena in tempo per scongiurare che l’ex-colonia si trasformasse in un califfato islamico. Come abbiamo visto, la minaccia è stata per il momento respinta, ma ha scatenato la ritorsione di Al Qaeda, decisa a vendicarsi anche in Europa.
La situazione è complessa, la guerriglia a nord preme con i militanti di Ansar Din: ci sono jihadisti, indipendentisti, qaedisti, reduci dell’esercito di Gheddafi; sono forze ben equipaggiate e addestrate che uniscono alla guerriglia l’attività del traffico di droga e il rapimento di occidentali. Recentemente sono giunte notizie che ingarbugliano ancor più la matassa: alcuni giornali francesi e algerini riferiscono che fonti dell'intelligence francese hanno raccolto prove secondo cui Doha avrebbe fornito un sostegno finanziario a tutti e tre i principali gruppi armati nel nord del Mali.
E’ chiaro comunque che stiamo vedendo i frutti velenosi di un atteggiamento ambiguo: la sponsorizzazione della guerra libica è stata l’occasione per rafforzare l'islamismo interno e per esportarlo. Come per un effetto domino, il fenomeno del fondamentalismo si è spostato nel nord Africa ed ora più vicino a noi, sul Mediterraneo. Non preannuncia certo niente di buono la sfida che Al Qaeda ha lanciato con la presa di ostaggi nel pozzo estrattivo della BP in Algeria. Ne sa qualcosa il governo algerino che da metà degli anni ‘90 è impegnato in una guerra sanguinosa contro gli estremisti del Fronte Islamico di Salvezza (FIS) che ha causato finora tra i 100.000 ed i 150.000 morti. Adesso i salafiti premono anche da est e da sud ed hanno minacciato anche l’Europa per l’intervento francese.
Le dinamiche del pensiero delle diplomazie occidentali lasciano perplessi: che senso ha far proliferare Al Qaeda in Libia per poi combatterla in Mali ed infine appoggiarla in Siria contro Assad (dove prende sempre più ‘piede’ la formazione terroristica jihadista Al- Nousra)? Bisognerebbe responsabilmente chiarire le ambiguità che hanno contrassegnato le politiche neocolonialiste inglesi e francesi degli ultimi anni, altrimenti si farà sempre più concreto il rischio di riproporre come soluzioni gli stessi ‘metodi’ machiavellici che hanno portato alla situazione attuale.
La questione è aperta ed è molto delicata. Tuttavia qui da noi l’attenzione è scarsa: in piena campagna elettorale, nei programmi e nei dibattiti non possiamo non notare che della Libia, del Mali e di politica estera in generale non ce n’è neanche l’ombra.
Tweet |
Sono presenti 0 commenti
Inserisci un commento
Gentile lettore, i commenti contententi un linguaggio scorretto e offensivo verranno rimossi.