Con il cuore in mano, Aldo Villagrossi, traduttore del libro “La ragazza di Sighet”, recentemente edito da Paoline, si racconta a La Perfetta Letizia
di Angelica Lo Duca
D - Nelle note del libro “La ragazza di Sighet”, lei racconta come è venuto a conoscenza del libro omonimo. Spiega inoltre che da tempo avrebbe voluto occuparsi di un libro sull’Olocausto. Per quale motivo si è interessato a questo tema?
R - E’ un obbligo civico per me. Viviamo in un'Europa che ha come cardine una moneta. Finché non colmeremo culturalmente il buco enorme causato dall'olocausto, dalle fosse Ardeatine, dalle Foibe, dalla "pulizia etnica" dei Serbi negli anni novanta, dagli esodi di massa, dalle ideologie razziste, non saremo mai una nazione, ma solo un gruppo di villaggi preistorici che fondamentalmente si odiano perché si vedono diversi. Basta vedere cosa dice la gente oggi sulla Grecia. La Grecia è stata la culla della nostra civiltà e oggi viene considerata al pari di una discarica abusiva. Per non dire della Turchia, prossima ad entrare in Europa e da molti ancora sentita come un paese "arabo", senza nemmeno considerare il fatto che la Turchia è... in Asia! Posso dire tranquillamente che dobbiamo ancora imparare a conoscerci. Il giorno che succederà, saremo tutti stupiti dal fatto che alla fine siamo tutti uguali.
R - Leggendo il libro “La ragazza di Sighet”, ci si commuove dalla prima all’ultima pagina. Potrebbe fare un confronto con altri libri dello stesso genere, come ad esempio “Se questo è un uomo” di Primo Levi e “Il Diario” di Anne Frank?
R - Levi è una lettura obbligata per me. "Se questo è un uomo" mi causò una crisi esistenziale profondissima, della quale non mi sono mai liberato. Quel libro parla di me, non so come dirlo, è come se riguardasse ognuno di noi. Amo tantissimo "La tregua", per via del fatto che è molto più positivo e nella narrazione è vagamente ironico, il che rende a mio avviso la lettura piacevolissima.
Sta di fatto che la storia di Hindi, soprattutto nella seconda parte, è un inedito assoluto. Pochi sanno quali siano stati i percorsi tortuosi degli ex-deportati alla fine del conflitto, soprattutto quelli che non hanno avuto modo di tornare a casa, come invece fu per Primo Levi. I 10.000 deportati di Sighet, quelli di Salonicco, quelli di Budapest, furono moltissimi quelli a non ritrovare più una casa in cui stare.
D - Purtroppo lei non ha potuto conoscere di persona Hindi Rothbart, data la sua scomparsa qualche mese fa. Dallo scambio di messaggi che ha avuto con lei, cosa può dire di questa meravigliosa donna, oltre a quello che si può ricavare dal libro?
R - Hindi mantenne vivo il ricordo di mio zio Adolfo per tutta la vita. Questo mi ha sempre stupito anche perché lui stesso ha fatto la stessa cosa con lei, nonostante la certezza, da ambo le parti, che fossero scarsissime le probabilità di essere sopravvissuti. Nell'ultimo periodo Hindi fu colpita da una seria forma di demenza senile, che la fece progressivamente "svanire" dal mondo reale, salvo rari momenti di lucidità. Ricordo che quando incontrai il figlio di Hindi, Bob, gli diedi una fotografia di mio zio intorno ai cinquant'anni. Lui gliela mostrò, chiedendole: "Mamma, chi è questo signore?". Lei guardò meglio la fotografia e disse: "Mio marito!". La somiglianza fra Adolfo Villagrossi e Laci Rothbart erano straordinarie.
Hindi fu una donna stimatissima nel contesto della comunità ebraica di Los Angeles. Al suo funerale tutti parlavano del libro... italiano. Eravamo riusciti a riportare un pezzo del suo cuore in Italia. Hindi parlava italiano, essendo rumena non aveva grossi problemi a parlarlo. So che ha letto alcuni passaggi del libro, e che ha apprezzato la mia traduzione. Per questo sono felice e il suo ricordo sarà sempre nel mio cuore.
D - La storia spesso è fatta di corsi e ricorsi e gli errori, se non se ne ha opportuna memoria, tendono ad essere ricommessi. Secondo lei, è sufficiente la testimonianza diretta delle vittime dell’Olocausto per mantenere viva la memoria delle nuove generazioni su questa strage? Oppure bisognerebbe fare altro?
R - Bella domanda! In realtà si assiste sempre ad una sorta di involuzione. I nazisti di oggi sono molto meno evoluti di quelli di ieri. Ed è così per tutte le altre "ideologie". Oggi assistiamo a fenomeni che si possono considerare "proto-nazisti", dove il nazismo dell'epoca di Hitler non è nemmeno sfiorato, ideologicamente parlando, a favore di una ferocia gratuita e talmente insensata che li porta ad implodere su se stessi, schiacciati dalla loro stessa inconsistenza culturale. Sa cosa le dico? Che finché siamo in Italia sono poco preoccupato di certi fenomeni. La capacità degli italiani nel produrre regole e leggi rigidissime è seconda solo alla loro innata abnegazione nel non rispettarle. E questo è spesso la loro salvezza. Per cui finché vivremo in una terra di contraddizioni come l'Italia il sistema per uscire dai guai ci sarà sempre.
D - Un’ultima domanda, più personale: potrebbe anticiparci quali saranno i suoi prossimi obiettivi?
R - Ho scoperto delle cose molto interessanti su mio zio Adolfo. Nel libro c'è una lettera che lui scrive ad Hindi, con una frase che a mio avviso era senza senso: "India, sono molto preoccupato per te, questo è l'indirizzo dei miei genitori, quando finirà la guerra verrò a sposarti”. Era un messaggio tanto incomprensibile da farmi chiamare più volte a Los Angeles per capire se Hindi avesse dimenticato qualcosa. Poi scoprii perché Adolfo si sentiva tanto sicuro a dare l'indirizzo dei miei bisnonni a un'ebrea che stava per essere deportata ad Auschwitz... ma questo è il prossimo libro. Le assicuro che è una storia unica al mondo, che coinvolge una intera comunità in anni in cui nascondere gli ebrei significava la fucilazione. Solo a qualche chilometro di distanza 104 persone vennero deportate e di queste solo quattro si salvarono. A Marmirolo, il nostro piccolo villaggio, nessuno fu deportato, nonostante la presenza di famiglie ebraiche storiche del posto. E le assicuro che l'organizzazione di questa operazione fu molto scrupolosa, e durò la bellezza di 8 anni con il coinvolgimento di tutto il paese.
Se non le dispiace, vorrei chiudere con una frase di Fabio Norsa, ebreo mantovano, presidente della comunità ebraica mantovana fino alla data della sua morte avvenuta nel 2012: "Una stato, una nazione, si dimostra tanto più democratica quanto più tutela tutte le sue componenti, soprattutto quelle di minoranza”.
di Angelica Lo Duca
D - Nelle note del libro “La ragazza di Sighet”, lei racconta come è venuto a conoscenza del libro omonimo. Spiega inoltre che da tempo avrebbe voluto occuparsi di un libro sull’Olocausto. Per quale motivo si è interessato a questo tema?
R - E’ un obbligo civico per me. Viviamo in un'Europa che ha come cardine una moneta. Finché non colmeremo culturalmente il buco enorme causato dall'olocausto, dalle fosse Ardeatine, dalle Foibe, dalla "pulizia etnica" dei Serbi negli anni novanta, dagli esodi di massa, dalle ideologie razziste, non saremo mai una nazione, ma solo un gruppo di villaggi preistorici che fondamentalmente si odiano perché si vedono diversi. Basta vedere cosa dice la gente oggi sulla Grecia. La Grecia è stata la culla della nostra civiltà e oggi viene considerata al pari di una discarica abusiva. Per non dire della Turchia, prossima ad entrare in Europa e da molti ancora sentita come un paese "arabo", senza nemmeno considerare il fatto che la Turchia è... in Asia! Posso dire tranquillamente che dobbiamo ancora imparare a conoscerci. Il giorno che succederà, saremo tutti stupiti dal fatto che alla fine siamo tutti uguali.
R - Leggendo il libro “La ragazza di Sighet”, ci si commuove dalla prima all’ultima pagina. Potrebbe fare un confronto con altri libri dello stesso genere, come ad esempio “Se questo è un uomo” di Primo Levi e “Il Diario” di Anne Frank?
R - Levi è una lettura obbligata per me. "Se questo è un uomo" mi causò una crisi esistenziale profondissima, della quale non mi sono mai liberato. Quel libro parla di me, non so come dirlo, è come se riguardasse ognuno di noi. Amo tantissimo "La tregua", per via del fatto che è molto più positivo e nella narrazione è vagamente ironico, il che rende a mio avviso la lettura piacevolissima.
Sta di fatto che la storia di Hindi, soprattutto nella seconda parte, è un inedito assoluto. Pochi sanno quali siano stati i percorsi tortuosi degli ex-deportati alla fine del conflitto, soprattutto quelli che non hanno avuto modo di tornare a casa, come invece fu per Primo Levi. I 10.000 deportati di Sighet, quelli di Salonicco, quelli di Budapest, furono moltissimi quelli a non ritrovare più una casa in cui stare.
D - Purtroppo lei non ha potuto conoscere di persona Hindi Rothbart, data la sua scomparsa qualche mese fa. Dallo scambio di messaggi che ha avuto con lei, cosa può dire di questa meravigliosa donna, oltre a quello che si può ricavare dal libro?
R - Hindi mantenne vivo il ricordo di mio zio Adolfo per tutta la vita. Questo mi ha sempre stupito anche perché lui stesso ha fatto la stessa cosa con lei, nonostante la certezza, da ambo le parti, che fossero scarsissime le probabilità di essere sopravvissuti. Nell'ultimo periodo Hindi fu colpita da una seria forma di demenza senile, che la fece progressivamente "svanire" dal mondo reale, salvo rari momenti di lucidità. Ricordo che quando incontrai il figlio di Hindi, Bob, gli diedi una fotografia di mio zio intorno ai cinquant'anni. Lui gliela mostrò, chiedendole: "Mamma, chi è questo signore?". Lei guardò meglio la fotografia e disse: "Mio marito!". La somiglianza fra Adolfo Villagrossi e Laci Rothbart erano straordinarie.
Hindi fu una donna stimatissima nel contesto della comunità ebraica di Los Angeles. Al suo funerale tutti parlavano del libro... italiano. Eravamo riusciti a riportare un pezzo del suo cuore in Italia. Hindi parlava italiano, essendo rumena non aveva grossi problemi a parlarlo. So che ha letto alcuni passaggi del libro, e che ha apprezzato la mia traduzione. Per questo sono felice e il suo ricordo sarà sempre nel mio cuore.
D - La storia spesso è fatta di corsi e ricorsi e gli errori, se non se ne ha opportuna memoria, tendono ad essere ricommessi. Secondo lei, è sufficiente la testimonianza diretta delle vittime dell’Olocausto per mantenere viva la memoria delle nuove generazioni su questa strage? Oppure bisognerebbe fare altro?
R - Bella domanda! In realtà si assiste sempre ad una sorta di involuzione. I nazisti di oggi sono molto meno evoluti di quelli di ieri. Ed è così per tutte le altre "ideologie". Oggi assistiamo a fenomeni che si possono considerare "proto-nazisti", dove il nazismo dell'epoca di Hitler non è nemmeno sfiorato, ideologicamente parlando, a favore di una ferocia gratuita e talmente insensata che li porta ad implodere su se stessi, schiacciati dalla loro stessa inconsistenza culturale. Sa cosa le dico? Che finché siamo in Italia sono poco preoccupato di certi fenomeni. La capacità degli italiani nel produrre regole e leggi rigidissime è seconda solo alla loro innata abnegazione nel non rispettarle. E questo è spesso la loro salvezza. Per cui finché vivremo in una terra di contraddizioni come l'Italia il sistema per uscire dai guai ci sarà sempre.
D - Un’ultima domanda, più personale: potrebbe anticiparci quali saranno i suoi prossimi obiettivi?
R - Ho scoperto delle cose molto interessanti su mio zio Adolfo. Nel libro c'è una lettera che lui scrive ad Hindi, con una frase che a mio avviso era senza senso: "India, sono molto preoccupato per te, questo è l'indirizzo dei miei genitori, quando finirà la guerra verrò a sposarti”. Era un messaggio tanto incomprensibile da farmi chiamare più volte a Los Angeles per capire se Hindi avesse dimenticato qualcosa. Poi scoprii perché Adolfo si sentiva tanto sicuro a dare l'indirizzo dei miei bisnonni a un'ebrea che stava per essere deportata ad Auschwitz... ma questo è il prossimo libro. Le assicuro che è una storia unica al mondo, che coinvolge una intera comunità in anni in cui nascondere gli ebrei significava la fucilazione. Solo a qualche chilometro di distanza 104 persone vennero deportate e di queste solo quattro si salvarono. A Marmirolo, il nostro piccolo villaggio, nessuno fu deportato, nonostante la presenza di famiglie ebraiche storiche del posto. E le assicuro che l'organizzazione di questa operazione fu molto scrupolosa, e durò la bellezza di 8 anni con il coinvolgimento di tutto il paese.
Se non le dispiace, vorrei chiudere con una frase di Fabio Norsa, ebreo mantovano, presidente della comunità ebraica mantovana fino alla data della sua morte avvenuta nel 2012: "Una stato, una nazione, si dimostra tanto più democratica quanto più tutela tutte le sue componenti, soprattutto quelle di minoranza”.
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