Circa quattro secoli di carcere per il clan legato alla figura carismatica del boss Salvatore Rizzo
Liberainformazione - Circa quattro secoli di carcere sono stati inflitti dal gup Giovanni Gallo agli affiliati al clan dell’ ergastolano Salvatore Rizzo, detto Totò, 60 anni, leccese originario di Castrignano del Capo. Gli imputati, in primo grado, hanno scelto di farsi giudicare con rito abbreviato. Solo otto su 57 sono stati assolti. Tra loro risalta il nome di Stefano Rizzo, titolare dell’ Iron Service. Era accusato di aver imposto alle aziende i servizi di guardiania della sua impresa. Per lui l’ aggiunto Antonio De Donno, titolare delle indagini con il procuratore capo Cataldo Motta e il sostituto Francesca Miglietta, aveva chiesto dieci anni di carcere. Tredici anni sono stati inflitti, invece, a suo zio Salvatore, boss storico di Lecce. Uno in più rispetto a quanti ne aveva invocati la pubblica accusa.
Il processo scaturisce dall’ operazione “Augusta” dell’ ottobre 2011, condotta dai carabinieri del Reparto Operativo Speciale e del Comando Provinciale di Lecce. Un’ operazione che, secondo il procuratore Motta, ha dimostrato come la Sacra Corona Unita continui, nonostante l’ incessante opera di contrasto delle forze dell’ ordine, a rinascere dalle proprie ceneri e a rimanere radicata nel territorio e nella realtà salentina. L’ inchiesta, infatti, consentì di fare luce su un clan della nuova Scu con al vertice Salvatore Rizzo e diviso in due articolazioni interne. La prima capeggiata da Ivan Firenze (già fedelissimo del defunto boss Giuseppe Lezzi) e da Nicolino Maci operante a Lecce, a Cavallino (soprattutto nel rione Castromediano), ma anche nei comuni di Vernole, San Cesario e San Donato. A entrambi è stata inflitta una condanna a 22 anni di reclusione (il primo in continuazione con una pena precedente). Queste sono le pene più dure del processo in questione. La seconda articolazione del gruppo (conosciuta come “Nuova Squadra” o “Nuovo Locale”) aveva come leader Alessandro Verardi, oggi collaboratore di giustizia, e Andrea Leo, soprannominato “Vernel”. Questa seconda costola del clan era radicata nella zona di Cavallino, Castromediano, Lizzanello, Merine, Vernole, Melendugno, Caprarica, Calimera e Martano. Verardi dovrà scontare 8 anni, Leo 16 (in continuazione a condanne già subite). Il sodalizio criminale basava la sua forza sul “patto di non belligeranza”. Questo si leggeva nell’ ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip Alcide Maritati nei confronti dei 49 indagati nell’ ottobre 2011. I contrasti emersi con il gruppo guidato da Leo, tra il dicembre 2008 e il gennaio 2009, si sarebbero appianati rapidamente perché è “meglio fare affari che la guerra”.
Ivan Firenze fu arrestato il 29 gennaio 2008 al valico del Brennero perché furono trovati due chili di cocaina nella ruota di scorta della sua auto. A guidare il clan sarebbe stato così il suo amico d’ infanzia Nicolino Maci che avrebbe seguito le indicazioni di Rizzo e Firenze. Direttive che arrivavano dal carcere dove i due erano reclusi, tramite le cosiddette “sfoglie”, con la complicità della moglie del Maci, Federica Ciminiello. Per lei la condanna è stata di 4 anni e otto mesi. Cinque anni, invece, sono stati inflitti a Raffaele Martena, il 26enne del brindisino, che era al centro del progetto di evasione dal carcere di Lecce dove era detenuto. Disegno criminale che avrebbe potuto causare una strage e sventato, fortunatamente, da un’ inchiesta della Dda.
Liberainformazione - Circa quattro secoli di carcere sono stati inflitti dal gup Giovanni Gallo agli affiliati al clan dell’ ergastolano Salvatore Rizzo, detto Totò, 60 anni, leccese originario di Castrignano del Capo. Gli imputati, in primo grado, hanno scelto di farsi giudicare con rito abbreviato. Solo otto su 57 sono stati assolti. Tra loro risalta il nome di Stefano Rizzo, titolare dell’ Iron Service. Era accusato di aver imposto alle aziende i servizi di guardiania della sua impresa. Per lui l’ aggiunto Antonio De Donno, titolare delle indagini con il procuratore capo Cataldo Motta e il sostituto Francesca Miglietta, aveva chiesto dieci anni di carcere. Tredici anni sono stati inflitti, invece, a suo zio Salvatore, boss storico di Lecce. Uno in più rispetto a quanti ne aveva invocati la pubblica accusa.
Il processo scaturisce dall’ operazione “Augusta” dell’ ottobre 2011, condotta dai carabinieri del Reparto Operativo Speciale e del Comando Provinciale di Lecce. Un’ operazione che, secondo il procuratore Motta, ha dimostrato come la Sacra Corona Unita continui, nonostante l’ incessante opera di contrasto delle forze dell’ ordine, a rinascere dalle proprie ceneri e a rimanere radicata nel territorio e nella realtà salentina. L’ inchiesta, infatti, consentì di fare luce su un clan della nuova Scu con al vertice Salvatore Rizzo e diviso in due articolazioni interne. La prima capeggiata da Ivan Firenze (già fedelissimo del defunto boss Giuseppe Lezzi) e da Nicolino Maci operante a Lecce, a Cavallino (soprattutto nel rione Castromediano), ma anche nei comuni di Vernole, San Cesario e San Donato. A entrambi è stata inflitta una condanna a 22 anni di reclusione (il primo in continuazione con una pena precedente). Queste sono le pene più dure del processo in questione. La seconda articolazione del gruppo (conosciuta come “Nuova Squadra” o “Nuovo Locale”) aveva come leader Alessandro Verardi, oggi collaboratore di giustizia, e Andrea Leo, soprannominato “Vernel”. Questa seconda costola del clan era radicata nella zona di Cavallino, Castromediano, Lizzanello, Merine, Vernole, Melendugno, Caprarica, Calimera e Martano. Verardi dovrà scontare 8 anni, Leo 16 (in continuazione a condanne già subite). Il sodalizio criminale basava la sua forza sul “patto di non belligeranza”. Questo si leggeva nell’ ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip Alcide Maritati nei confronti dei 49 indagati nell’ ottobre 2011. I contrasti emersi con il gruppo guidato da Leo, tra il dicembre 2008 e il gennaio 2009, si sarebbero appianati rapidamente perché è “meglio fare affari che la guerra”.
Ivan Firenze fu arrestato il 29 gennaio 2008 al valico del Brennero perché furono trovati due chili di cocaina nella ruota di scorta della sua auto. A guidare il clan sarebbe stato così il suo amico d’ infanzia Nicolino Maci che avrebbe seguito le indicazioni di Rizzo e Firenze. Direttive che arrivavano dal carcere dove i due erano reclusi, tramite le cosiddette “sfoglie”, con la complicità della moglie del Maci, Federica Ciminiello. Per lei la condanna è stata di 4 anni e otto mesi. Cinque anni, invece, sono stati inflitti a Raffaele Martena, il 26enne del brindisino, che era al centro del progetto di evasione dal carcere di Lecce dove era detenuto. Disegno criminale che avrebbe potuto causare una strage e sventato, fortunatamente, da un’ inchiesta della Dda.
di Antonio Nicola Pezzuto
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