Per un italiano emigrato all’estero il mondo a qualsiasi età è sempre piccolo, l’incontro di mondi differenti prezioso. La storia di Giuseppe.
di Renato Zilio
“Ma è una follia - gli aveva detto qualcuno - a 86 anni mettersi in viaggio! Restare per aria una ventina d’ore fino ad arrivare alle Filippine non è impresa da poco!”. Ma questo era un sogno. Per lui, Giuseppe Ciampa di Montefalcione, emigrato nel ‘54 a Bedford a due passi da Londra, l’idea aveva quasi la sacralità di un voto. Concetta, la moglie - ormai nelle mani del Signore - aveva adottato anni fa, come una mamma, un giovane missionario filippino, Hily. Questi le aveva costruito un monumento nella sua terra. Voleva vederlo. Prima di chiudere gli occhi per sempre, voleva contemplare il suo nome scritto in oro proprio in terra filippina.
Il viaggio fu lunghissimo e passò in un attimo. Era ormai l’Asia, un altro mondo. Anzi l’isola sacra delle Filippine, Cebu, la terra del Santo Niño. Nel giardino del noviziato dei Missionari Scalabriniani, posto in altura sopra una città di tre milioni di abitanti, sulla punta più esposta la statua di Giovanni Battista Scalabrini, padre dei migranti, pareva un cannocchiale per guardare il mondo da vicino. Sotto, la foto e una bella frase dedicata a mamma Concetta. Una corona di giovani seminaristi vietnamiti, indonesiani e filippini, straordinariamenti sorridenti, già dalla prima sera improvvisavano una veglia di preghiera. “Welcome Giuseppe!” si leggeva sui muri della casa, in carta di riso ritagliata, come sulla porta della sua stanza. L’emozione e la stanchezza scivolarono via ben presto... Due seminaristi, esperti, gli levigavano subito muscoli e ossa con i benefici di un massaggio indonesiano. Qui è proprio un altro mondo!
I giorni scappano via che è un piacere. A tavola, riso mattina, mezzogiorno e sera. Prima di sedersi, però, lo sguardo di tutti va a una lavagnetta sul muro per gridare insieme tre volte il mantra del giorno, da ripetere continuamente:“Follow me!”. Così, a fine gennaio, giornate calde e fioriture tropicali tengono buona compagnia. Il padre maestro Alvirio, brasiliano, e padre Ignacio, messicano, educano questa trentina di giovani di tre mondi differenti a vivere insieme. A vivere con Dio. L’arte del padre e della madre, decisione e dolcezza, fanno nascere ogni giorno tra loro dei piccoli miracoli.
La serata italiana, poi, rimane un pezzo d’opera d’arte indimenticabile. Spaghetti, pizza e vino offerti dal nostro Giuseppe godono subito un successo istantaneo, incredibile. Anche in Estremo Oriente. Tanto da far cantare insieme i giovani, stretti corpo a corpo e dondolandosi ritmicamente, canzoni dei loro tre Paesi con tutte le energie dell’anima. Come le ciliegie, un miracolo tira l’altro. Era sera: la città si illumina sotto i nostri piedi come un immenso, delizioso presepio. Una magia.
Ritrovate gli stessi giovani in preghiera, durante la giornata, nel silenzio della cappella aperta ai quattro venti. Immobili come statue, in meditazione, quasi come dei monaci buddisti. È vero, siamo in Asia. Altro senso del corpo, dello spirito e della loro presenza. Il tabernacolo è un tempietto taoista, il leggio e altro in bambù, si entra a piedi nudi. Alla presenza di Dio. Alle prime luci del mattino, però, un’infinita corale di galli invade l’aria: sotto la collina per una bidonville di povera gente inizia l’amarezza del giorno. Il pianto del mondo arriva fin quassù. Lo ritrovi nel pregare di questi giovani. “Veni Creator Spiritus” apre la loro preghiera del mattino. È una sola voce, un suono potente, compatto, ondivago; da lontano sembra un coro di marinai su un’imbarcazione, invocando il vento di Dio per le loro vele. Sì, inspired lives.
Qui tutto è curato, fiorito: un’oasi. Ma è solo un’illusione. In verità, è un campo di battaglia. Ogni giovane combatte con se stesso per diventare un essere umano aperto, un uomo di dialogo, di empatia, ricco di interiorità, di umanità e di compassione per gli altri, per i migranti. “Qui rinasce la nostra Congregazione!” si lascia sfuggire il padre maestro. Così, camminando sovrappensiero, Giuseppe si ferma. Vuole una foto proprio qui, dove un novizio ha appena steso al sole la biancheria di tutti. Magliette con logo “Scalabrinians Missionaries” vi sorridono tra un’infinità di mutandine. Una scena curiosamente simbolica. Sì, rinunciare alla propria sessualità per vivere uno spirito di famiglia come fratelli non è sfida da poco. “Macchè fratelli! - sottolinea lui - Più di fratelli, perché spesso l’amore di fratelli rima con i coltelli”. E continua: “Qui non ho mai sentito un no, un perchè, ognuno fa, rispetta, obbedisce all’altro!”. E gli resta stampata in faccia un’espressione commossa di ammirazione. Emman, Rafael, Peter, Joachim, Martinus... sono uomini di sfide, soprattutto i vietnamiti che escono da antiche guerre. In Europa non sembrano crescerne più di giovani così... Un giorno le loro strade, i loro mondi entreranno in contatto con il nostro. Ci ricorderanno i nostri valori perduti. Anche questo sa di miracolo.
di Renato Zilio
“Ma è una follia - gli aveva detto qualcuno - a 86 anni mettersi in viaggio! Restare per aria una ventina d’ore fino ad arrivare alle Filippine non è impresa da poco!”. Ma questo era un sogno. Per lui, Giuseppe Ciampa di Montefalcione, emigrato nel ‘54 a Bedford a due passi da Londra, l’idea aveva quasi la sacralità di un voto. Concetta, la moglie - ormai nelle mani del Signore - aveva adottato anni fa, come una mamma, un giovane missionario filippino, Hily. Questi le aveva costruito un monumento nella sua terra. Voleva vederlo. Prima di chiudere gli occhi per sempre, voleva contemplare il suo nome scritto in oro proprio in terra filippina.
Il viaggio fu lunghissimo e passò in un attimo. Era ormai l’Asia, un altro mondo. Anzi l’isola sacra delle Filippine, Cebu, la terra del Santo Niño. Nel giardino del noviziato dei Missionari Scalabriniani, posto in altura sopra una città di tre milioni di abitanti, sulla punta più esposta la statua di Giovanni Battista Scalabrini, padre dei migranti, pareva un cannocchiale per guardare il mondo da vicino. Sotto, la foto e una bella frase dedicata a mamma Concetta. Una corona di giovani seminaristi vietnamiti, indonesiani e filippini, straordinariamenti sorridenti, già dalla prima sera improvvisavano una veglia di preghiera. “Welcome Giuseppe!” si leggeva sui muri della casa, in carta di riso ritagliata, come sulla porta della sua stanza. L’emozione e la stanchezza scivolarono via ben presto... Due seminaristi, esperti, gli levigavano subito muscoli e ossa con i benefici di un massaggio indonesiano. Qui è proprio un altro mondo!
I giorni scappano via che è un piacere. A tavola, riso mattina, mezzogiorno e sera. Prima di sedersi, però, lo sguardo di tutti va a una lavagnetta sul muro per gridare insieme tre volte il mantra del giorno, da ripetere continuamente:“Follow me!”. Così, a fine gennaio, giornate calde e fioriture tropicali tengono buona compagnia. Il padre maestro Alvirio, brasiliano, e padre Ignacio, messicano, educano questa trentina di giovani di tre mondi differenti a vivere insieme. A vivere con Dio. L’arte del padre e della madre, decisione e dolcezza, fanno nascere ogni giorno tra loro dei piccoli miracoli.
La serata italiana, poi, rimane un pezzo d’opera d’arte indimenticabile. Spaghetti, pizza e vino offerti dal nostro Giuseppe godono subito un successo istantaneo, incredibile. Anche in Estremo Oriente. Tanto da far cantare insieme i giovani, stretti corpo a corpo e dondolandosi ritmicamente, canzoni dei loro tre Paesi con tutte le energie dell’anima. Come le ciliegie, un miracolo tira l’altro. Era sera: la città si illumina sotto i nostri piedi come un immenso, delizioso presepio. Una magia.
Ritrovate gli stessi giovani in preghiera, durante la giornata, nel silenzio della cappella aperta ai quattro venti. Immobili come statue, in meditazione, quasi come dei monaci buddisti. È vero, siamo in Asia. Altro senso del corpo, dello spirito e della loro presenza. Il tabernacolo è un tempietto taoista, il leggio e altro in bambù, si entra a piedi nudi. Alla presenza di Dio. Alle prime luci del mattino, però, un’infinita corale di galli invade l’aria: sotto la collina per una bidonville di povera gente inizia l’amarezza del giorno. Il pianto del mondo arriva fin quassù. Lo ritrovi nel pregare di questi giovani. “Veni Creator Spiritus” apre la loro preghiera del mattino. È una sola voce, un suono potente, compatto, ondivago; da lontano sembra un coro di marinai su un’imbarcazione, invocando il vento di Dio per le loro vele. Sì, inspired lives.
Qui tutto è curato, fiorito: un’oasi. Ma è solo un’illusione. In verità, è un campo di battaglia. Ogni giovane combatte con se stesso per diventare un essere umano aperto, un uomo di dialogo, di empatia, ricco di interiorità, di umanità e di compassione per gli altri, per i migranti. “Qui rinasce la nostra Congregazione!” si lascia sfuggire il padre maestro. Così, camminando sovrappensiero, Giuseppe si ferma. Vuole una foto proprio qui, dove un novizio ha appena steso al sole la biancheria di tutti. Magliette con logo “Scalabrinians Missionaries” vi sorridono tra un’infinità di mutandine. Una scena curiosamente simbolica. Sì, rinunciare alla propria sessualità per vivere uno spirito di famiglia come fratelli non è sfida da poco. “Macchè fratelli! - sottolinea lui - Più di fratelli, perché spesso l’amore di fratelli rima con i coltelli”. E continua: “Qui non ho mai sentito un no, un perchè, ognuno fa, rispetta, obbedisce all’altro!”. E gli resta stampata in faccia un’espressione commossa di ammirazione. Emman, Rafael, Peter, Joachim, Martinus... sono uomini di sfide, soprattutto i vietnamiti che escono da antiche guerre. In Europa non sembrano crescerne più di giovani così... Un giorno le loro strade, i loro mondi entreranno in contatto con il nostro. Ci ricorderanno i nostri valori perduti. Anche questo sa di miracolo.
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