Il movimento abortista è in una fase di profonda difficoltà, lo ha chiarito recentemente anche il settimanale inglese Time.
Uccr - Il 2012 è stato l’anno con il maggior numero di leggi restrittive in tema di aborto, motivo fondamentale è proprio il progresso scientifico -come dimostra una recente sentenza della Corte Suprema dell’Alabama-, grazie al quale più nessuno può ingannare le donne dicendo loro che quel che portano nel grembo è soltanto un grumo di cellule. Ed ecco quindi che la strategia si modifica e dalle colonne progressiste di Salon la scrittrice Mary Elizabeth Williams se ne esce con questa provocazione: “Che importa se l’aborto termina una vita umana?”. Ha spiegato infatti: «Mentre gli oppositori dell’aborto si definiscono con entusiasmo “pro-vita”, il resto di noi ha dovuto arrampicarsi in giro con parole come “scelta” e “libertà riproduttiva”. Eppure per tutta la mia gravidanza non ho mai avuto un dubbio che stavo portando una vita umana dentro di me. Io credo che è quello che un feto è: una vita umana. E questo non mi fa essere, nemmeno di una virgola, una meno solida pro-choice». Ha quindi continuato: «Un feto può essere una vita umana senza avere gli stessi diritti della donna nel cui corpo si trova. Lei è il capo. La sua salute dovrebbe automaticamente prevalere sui diritti dell’entità non-autonoma dentro di lei. Sempre».
Ecco dunque la chiara teorizzazione dell’esistenza di esseri umani privi di diritti umani (controsenso?) in quanto non autonomi. Ma il neonato sarebbe invece una vita umana autonoma? No, senza la madre morirebbe in poco tempo ed è superfluo il fatto che stia dentro o fuori di lei. Un disabile sarebbe autonomo? Purtroppo no, dunque avrebbe meno diritti delle altre persone? L’argomento è pericoloso e gioca di sponda alle recenti dichiarazioni dei responsabili della Consulta di Bioetica Laica, di Maurizio Mori, che hanno chiaramente teorizzato l’infanticidio (definito aborto post-partum) proprio in quanto non ci sarebbe differenza -e in questo hanno ragione- tra il neonato (e il disabile grave) e il feto umano.
La Williams ha comunque proseguito sottolineando -correttamente- le varie contraddizioni dei suoi amici abortisti: «Ho amici che hanno fatto riferimento ai loro aborti in termini di “grattar via un mucchio di cellule” e poi qualche anno più tardi erano esultanti per la gravidanza che senza esitazione hanno descritto in termini di “il bambino” e “questo ragazzo”. I feti non si qualificano come vita umana soltanto se sono destinati a nascere». La sua conclusione è comunque perentoria: «riconosco che il feto è una vita. Una vita che vale la pena sacrificare». Anche sul Washington Post un articolo di un altro militante pro-choice, Frances Kissling, segue la stessa direzione: «Gli oppositori usano argomenti sempre più sofisticati – concentrandosi su progressi della medicina fetale», noi invece, continua l’abortista, «ci aggrappiamo agli argomenti che hanno portato alla legalizzazione dell’aborto negli USa: l’aborto è una decisione privata, diciamo, e lo Stato non ha alcun potere su di un corpo di donna. Tali argomenti possono essere stati utili nel 1970, ma oggi, stanno fallendo, e concentrandosi su di loro rischiamo solo tutte le conquiste che abbiamo fatto».
Qual’è la nuova strategia, allora? «Non possiamo più fingere che il feto sia invisibile. Dobbiamo porre fine alla finzione che un aborto a 26 settimane non sarebbe diverso da uno a sei settimane. Questi non sono compromessi o semplici concessioni strategiche, sono una necessaria evoluzione. Le posizioni che abbiamo preso fino ad ora non sono sufficienti per le domande del 21° secolo. Sappiamo più di quello che sapevamo nel 1973, e le nostre posizioni dovrebbero riflettere». E ancora: «Il feto è più visibile che mai, e il movimento per i diritti dell’aborto deve accettare la sua esistenza e il suo valore. Esso non può avere un diritto alla vita, e il suo valore non può essere uguale a quello della donna incinta, ma terminare la vita di un feto non è un evento moralmente insignificante».
Siamo certamente contenti di questo passo in avanti, anche se rimangono milioni e milioni le donne appositamente ingannate, quando i sedicenti “difensori della donna” dicevano loro che «l’aborto non è niente di più di un intervento medico ambulatoriale, come l’incisione di un foruncolo o la medicazione di una scottatura» (R. Sgarbi e G. Vivi, Ma l’amor mio non muore, Arcana 1971, p. 250). Oggi con il progresso scientifico e l’ecografia 4D presente in ogni ospedale (americano) è impossibile continuare a mentire alla donna, ecco dunque che i “pro-choice” hanno dovuto cambiare strategia: “il feto è un essere umano, ma è privo di diritti umani”.
Nuova strategia e nuove contraddizioni, ovviamente. In quasi tutti gli stati in cui è legalizzato l’aborto esiste un limite per interrompere la gravidanza (in Italia è la 22° settimana), e dunque da quel momento in poi si è obbligati a non uccidere l’essere umano che la donna porta nel grembo (a parte delle rare eccezioni), come chiede la legge 194. Tale limite è stato ritenuto necessario perché dopo quell’istante era impossibile continuare a sostenere che non ci fossero in gioco due esseri umani, e il diritto alla vita del neo-concepito prevaleva sul diritto ad interrompere la gravidanza (a parte alcune eccezioni).
Ora la domanda da fare agli abortisti è questa: come giustificare filosoficamente l’esistenza di esseri umani privi di diritti umani? Forse con la fallimentare e pericolosa filosofia utilitarista (ovvero, in poche parole: “sei una persona se me lo sai dimostrare”), già usata dagli eugenisti in passato? Altra questione: in Italia il neo-concepito comincia ad acquisire dei diritti alla 22°settimana. Ma cosa giustifica tale limite? Ovvero, che differenza c’è tra questo momento e la 21° settimana e sei giorni? Forse che un essere umano può acquisire i diritti umani ad una certa ora, di un certo giorno, di una certa settimana? Oppure, per evitare di cadere nel ridicolo, si dovrebbe razionalmente anticipare tale momento all’istante in cui appare il nuovo essere umano, unico e irripetibile dal punto di vista scientifico, ovvero al momento del concepimento?
Se prima il grande nemico del movimento abortista era la realtà stessa, rifiutandosi capricciosamente di riconoscere l’evidenza di un essere umano, oggi si parla di incoerenza razionale. Attendiamo fiduciosi il prossimo momento di illuminazione dei cosiddetti “pro-choice”, ovvero di coloro che sostengono che un essere umano è libero di scegliere della vita o della morte di un altro essere umano, con il beneplacito di tutti i militanti per i diritti umani.
Uccr - Il 2012 è stato l’anno con il maggior numero di leggi restrittive in tema di aborto, motivo fondamentale è proprio il progresso scientifico -come dimostra una recente sentenza della Corte Suprema dell’Alabama-, grazie al quale più nessuno può ingannare le donne dicendo loro che quel che portano nel grembo è soltanto un grumo di cellule. Ed ecco quindi che la strategia si modifica e dalle colonne progressiste di Salon la scrittrice Mary Elizabeth Williams se ne esce con questa provocazione: “Che importa se l’aborto termina una vita umana?”. Ha spiegato infatti: «Mentre gli oppositori dell’aborto si definiscono con entusiasmo “pro-vita”, il resto di noi ha dovuto arrampicarsi in giro con parole come “scelta” e “libertà riproduttiva”. Eppure per tutta la mia gravidanza non ho mai avuto un dubbio che stavo portando una vita umana dentro di me. Io credo che è quello che un feto è: una vita umana. E questo non mi fa essere, nemmeno di una virgola, una meno solida pro-choice». Ha quindi continuato: «Un feto può essere una vita umana senza avere gli stessi diritti della donna nel cui corpo si trova. Lei è il capo. La sua salute dovrebbe automaticamente prevalere sui diritti dell’entità non-autonoma dentro di lei. Sempre».
Ecco dunque la chiara teorizzazione dell’esistenza di esseri umani privi di diritti umani (controsenso?) in quanto non autonomi. Ma il neonato sarebbe invece una vita umana autonoma? No, senza la madre morirebbe in poco tempo ed è superfluo il fatto che stia dentro o fuori di lei. Un disabile sarebbe autonomo? Purtroppo no, dunque avrebbe meno diritti delle altre persone? L’argomento è pericoloso e gioca di sponda alle recenti dichiarazioni dei responsabili della Consulta di Bioetica Laica, di Maurizio Mori, che hanno chiaramente teorizzato l’infanticidio (definito aborto post-partum) proprio in quanto non ci sarebbe differenza -e in questo hanno ragione- tra il neonato (e il disabile grave) e il feto umano.
La Williams ha comunque proseguito sottolineando -correttamente- le varie contraddizioni dei suoi amici abortisti: «Ho amici che hanno fatto riferimento ai loro aborti in termini di “grattar via un mucchio di cellule” e poi qualche anno più tardi erano esultanti per la gravidanza che senza esitazione hanno descritto in termini di “il bambino” e “questo ragazzo”. I feti non si qualificano come vita umana soltanto se sono destinati a nascere». La sua conclusione è comunque perentoria: «riconosco che il feto è una vita. Una vita che vale la pena sacrificare». Anche sul Washington Post un articolo di un altro militante pro-choice, Frances Kissling, segue la stessa direzione: «Gli oppositori usano argomenti sempre più sofisticati – concentrandosi su progressi della medicina fetale», noi invece, continua l’abortista, «ci aggrappiamo agli argomenti che hanno portato alla legalizzazione dell’aborto negli USa: l’aborto è una decisione privata, diciamo, e lo Stato non ha alcun potere su di un corpo di donna. Tali argomenti possono essere stati utili nel 1970, ma oggi, stanno fallendo, e concentrandosi su di loro rischiamo solo tutte le conquiste che abbiamo fatto».
Qual’è la nuova strategia, allora? «Non possiamo più fingere che il feto sia invisibile. Dobbiamo porre fine alla finzione che un aborto a 26 settimane non sarebbe diverso da uno a sei settimane. Questi non sono compromessi o semplici concessioni strategiche, sono una necessaria evoluzione. Le posizioni che abbiamo preso fino ad ora non sono sufficienti per le domande del 21° secolo. Sappiamo più di quello che sapevamo nel 1973, e le nostre posizioni dovrebbero riflettere». E ancora: «Il feto è più visibile che mai, e il movimento per i diritti dell’aborto deve accettare la sua esistenza e il suo valore. Esso non può avere un diritto alla vita, e il suo valore non può essere uguale a quello della donna incinta, ma terminare la vita di un feto non è un evento moralmente insignificante».
Siamo certamente contenti di questo passo in avanti, anche se rimangono milioni e milioni le donne appositamente ingannate, quando i sedicenti “difensori della donna” dicevano loro che «l’aborto non è niente di più di un intervento medico ambulatoriale, come l’incisione di un foruncolo o la medicazione di una scottatura» (R. Sgarbi e G. Vivi, Ma l’amor mio non muore, Arcana 1971, p. 250). Oggi con il progresso scientifico e l’ecografia 4D presente in ogni ospedale (americano) è impossibile continuare a mentire alla donna, ecco dunque che i “pro-choice” hanno dovuto cambiare strategia: “il feto è un essere umano, ma è privo di diritti umani”.
Nuova strategia e nuove contraddizioni, ovviamente. In quasi tutti gli stati in cui è legalizzato l’aborto esiste un limite per interrompere la gravidanza (in Italia è la 22° settimana), e dunque da quel momento in poi si è obbligati a non uccidere l’essere umano che la donna porta nel grembo (a parte delle rare eccezioni), come chiede la legge 194. Tale limite è stato ritenuto necessario perché dopo quell’istante era impossibile continuare a sostenere che non ci fossero in gioco due esseri umani, e il diritto alla vita del neo-concepito prevaleva sul diritto ad interrompere la gravidanza (a parte alcune eccezioni).
Ora la domanda da fare agli abortisti è questa: come giustificare filosoficamente l’esistenza di esseri umani privi di diritti umani? Forse con la fallimentare e pericolosa filosofia utilitarista (ovvero, in poche parole: “sei una persona se me lo sai dimostrare”), già usata dagli eugenisti in passato? Altra questione: in Italia il neo-concepito comincia ad acquisire dei diritti alla 22°settimana. Ma cosa giustifica tale limite? Ovvero, che differenza c’è tra questo momento e la 21° settimana e sei giorni? Forse che un essere umano può acquisire i diritti umani ad una certa ora, di un certo giorno, di una certa settimana? Oppure, per evitare di cadere nel ridicolo, si dovrebbe razionalmente anticipare tale momento all’istante in cui appare il nuovo essere umano, unico e irripetibile dal punto di vista scientifico, ovvero al momento del concepimento?
Se prima il grande nemico del movimento abortista era la realtà stessa, rifiutandosi capricciosamente di riconoscere l’evidenza di un essere umano, oggi si parla di incoerenza razionale. Attendiamo fiduciosi il prossimo momento di illuminazione dei cosiddetti “pro-choice”, ovvero di coloro che sostengono che un essere umano è libero di scegliere della vita o della morte di un altro essere umano, con il beneplacito di tutti i militanti per i diritti umani.
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