lunedì, febbraio 04, 2013
Nel suo nuovo libro, Eric Schmidt (capo del colosso di internet) punta il dito contro il regime comunista: “Pechino è la minaccia peggiore per la libertà di internet”. Negli ultimi 10 anni si sono moltiplicate le accuse internazionali contro la censura del governo cinese. I media nazionali tentano la difesa: “Solo accuse di stampo nazionalistico”.

Pechino (AsiaNews) - La Cina "è l'hacker più pericoloso del mondo, la minaccia peggiore per la libertà di internet. Il governo sostiene i crimini cibernetici per ottenere in cambio benefici economici e politici". A dirlo non è un dissidente, ma Eric Schmidt, presidente di Google. Nel suo ultimo libro, il capo del colosso della Rete definisce Pechino "il filtro alle informazioni più attivo ed entusiasta di internet, l'hacker più sofisticato e prolifico ai danni delle compagnie straniere". Da parte sua il regime comunista nega tutte le accuse, ma le prove a suo carico si moltiplicano.

La Cina è ritenuta il mandante dei maggiori attacchi cibernetici avvenuti in Rete fra il 2006 e il 2011. Secondo alcuni dati di Google, questi si sono rivolti contro 72 Organizzazioni internazionali fra cui l'Onu e il Comitato olimpico internazionale. Nel 2011, la stessa Google ha accusato Pechino di aver violato gli account email di "centinaia di funzionari, militari e giornalisti americani". Inoltre, la Corea del Sud sostiene che sempre il governo cinese abbia ordinato il furto dei dati di 35 milioni di utenti di un social network locali.

Le ultime accuse in ordine di tempo vengono dai maggiori media statunitensi, fra cui il New York Times e il Washington Post, che hanno denunciato il regime per una serie di violazioni cibernetiche ai loro danni. I giornali sono nel mirino di Pechino a causa di una serie di inchieste sulla situazione economica delle famiglie del nuovo presidente Xi Jinping e sul premier uscente Wen Jiabao; quest'ultimo avrebbe usato il suo ruolo per accrescere la fortuna familiare.

Il governo comunista ha usato i media ufficiali per respingere queste accuse. Nel Quotidiano del Popolo di oggi si legge: "L'America continua a definire la Cina un 'pirata informatico', ma gli indirizzi IP non sono una prova sufficiente per sostenere queste accuse. In realtà vogliono solo montare la 'minaccia cinese' per mantenere le proprie politiche di contenimento nei nostri confronti. Anche chi non ne capisce molto sa che questi attacchi sono transnazionali e del tutto irrintracciabili".

Nel libro intitolato "New Digital Age", in uscita ad aprile, Schmidt sostiene che la competizione cibernetica è "pericolosa in maniera particolare per gli Stati Uniti. Le tattiche di confronto e di spionaggio sono diverse e mettono in svantaggio gli Usa, che non possono violare le leggi vigenti in materia. Gli Stati e i governi occidentali possono trarre vantaggio dalla situazione se usano hardware e tecnologie sviluppate da ditte di cui si possono fidare". Il riferimento è alla Huawei, colosso informatico cinese, che produce in sostanza tutto l'hardware più comune in circolazione e che è sospettata di collusione con Pechino.


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