domenica, febbraio 24, 2013
Intervista a due operatori sanitari di un'Asl romana che opera nei campi nomadi. Il pregiudizio, l'amicizia, le cose da cambiare

Città Nuova - Dopo la denuncia e la proposta lanciata dal presidente dell’associazione 21 luglio a proposito dei campi rom nella Capitale, cominciamo un viaggio nella vita quotidiana di un medico pediatra (Riccardo) e di una infermiera (Stefania) chiamati ogni giorno ad intervenire dentro un contesto sociale poco conosciuto e che genera incomprensioni e pregiudizi. Per motivi di riservatezza i nomi sono di fantasia.

È un mondo, quello dei rom, che sembra da sempre “fuori posto”. Al massimo gente da tollerare… Riccardo: «È l’approccio peggiore! È come dichiararsi sconfitti in partenza. E poi non dimentichiamo che “fuori posto” ci sono stati messi. Gli zingari hanno una storia antica di persecuzioni e deportazioni feroci. Pensate ai tempi del nazismo. Ma anche recentemente (vedi rom della Bosnia) molti sono dovuti fuggire dalla loro terra per salvare la pelle: persone che avrebbero diritto allo status di rifugiati. Comunque sia, è vero che i rom hanno una loro originalità, e si infilano in genere tra gli spazi di degrado urbano delle nostre periferie. È un universo parallelo, alternativo, nomade: il them romanò, in effettiabbastanza allergico alle strutture».

Ma allora come riuscite a dare continuità al vostro lavoro, vista questa condizione nomade?
Riccardo: «Forse è utile partire da un po’ di storia. La realtà dei rom, dei sinti e dei camminanti è complessa e antica. Nell’area romana la presenza zingara risale al XVI secolo, nel rione Monti c’è ancora la lunga via degli Zingari a confermarlo. Dietro alla parola “nomade” o zingaro o rom in realtà c’è un universo complesso. Il nomadismo stesso –anche se in realtà i rom sono ormai una realtà quasi del tutto stanziale, in Italia – non va pensato come una cosa strana, appartiene alla storia dell’umanità. Un tempo eravamo tutti dei nomadi. Nell’anima il popolo rom continua a vivere così, giorno per giorno, senza preoccuparsi del futuro. Di fatto, vive nei campi, ma la stanzialità è, in genere, gestita male. Il campo è spesso sinonimo di ghetto».

Considerando la loro diffidenza per le strutture, non deve essere semplice “inquadrare le situazioni sanitarie”, come vi muovete ?
Riccardo: «L’esperienza di questa equipe partita nel 2006 è stata quella di partire dai loro bisogni di salute senza imporre schemi rigidi. Anche se è chiaro che la prima cosa che salta alla vista è la necessità di curare. Di prevenire. Ma abbiamo capito che per riuscire era importante partire dalle loro richieste e soprattutto costruire appunto rapporti di fiducia».

Quindi accettano la vostra offerta di cure?
Stefania: «Dopo anni di lavoro, ormai direi di sì. Certo, c’è ancora un grande percorso da fare, anche come integrazione sanitaria, ma sta andando bene. Prendete il campo della Cesarina. Dopo 7 anni di presenza continua e rispettosa della loro identità e diversità cultuale, le risposte arrivano. Il tasso di vaccinazioni dei rom bosniaci è intorno al 90 per cento, cosa impensabile anni fa. L’affluenza negli ambulatori dedicati a Stp ed Eni (acronimo dei codici sanitari per Stranieri temporaneamente presenti o Europei non iscritti) con richiesta di visite ginecologiche e pediatriche e specialistiche è aumentata».

Che patologie sono riscontrabili in campo pediatrico?
Riccardo: «Fare il medico nei Campi per visitare i bambini rom è un po’ come compiere un balzo spazio-temporale. All’indietro. Si ritrovano patologie antiche come la Tbc, o altre ancora presenti tra noi, ma più diffuse».

E riuscite a curarle?
Riccardo:«Si tamponano le urgenze come si farebbe per qualunque altro bambino. E si lavora sulla prevenzione, vedi vaccinazioni a tappeto. Ma il vero nodo starebbe nel migliorare le condizioni sociali, igieniche e alimentari. Nel poter fare un’educazione sanitaria continua. Tutte cose che hanno fatto miracoli per i bambini italiani, dal dopoguerra in poi. La nostra esperienza ci fa dire che l’unica è partire dalle donne, vero fulcro della famiglia rom, per arrivare ai bambini, che sono –per loro come per noi- il futuro».

Come va con la scuola nei campi?
Riccardo: « Finché i bambini nei campi vivranno in condizioni sub-umane, è pura utopia pensare la continuità scolastica. Sapete che al campo della Cesarina, dove sono stati investiti centinaia di migliaia di euro, adesso non c’è più nemmeno l’acqua, visto che l’attuale gestione pare l’abbia tolta? Anche l’unica fontanella del Comune non c’è più. E la gente va a comprare le bottiglie di acqua minerale non solo per fare da mangiare, ma anche per lavarsi e lavare i bambini…Condizioni fatiscenti e potenzialmente a rischio epidemia».

Resta prevalente,quindi, l’aspetto sanitario?
Riccardo: «Proprio così! E’ chiaro che anche per un sanitario che si impegni a “diagnosticare e prescrivere”, insomma curare, è frustrante se mancano i presupposti fondamentali della salute, come l’igiene. Come l’accesso all’acqua, vero diritto fondamentale. Ed è per questo che anche noi non possiamo starcene zitti».

E come sono i bambini rom?
Stefania: «Sono vispi, acuti, maturano molto presto. Interessati a tutto, hanno uno sviluppo cognitivo accelerato, con autonomia e intraprendenza incredibili. Sulla breve distanza avrebbero da dare molti punti ai nostri bambini, cresciuti nella bambagia».
Riccardo: «Quando li vedi giocare o danzare ti accorgi di tutto un patrimonio che potrebbe essere valorizzato. Ed esistono moltissime esperienze positive a riguardo nate dal volontariato, che fa un lavoro preziosissimo nei Campi. Purtroppo sono talenti che vengono bruciati in fretta perché qui l’infanzia è breve, si diventa presto adulti».
Stefania: «Ci dovremmo chiedere: come sfruttare questo patrimonio umano che abbiamo? Domanda che una società civile dovrebbe farsi non solo per i bambini rom, ma per tutti i bambini stranieri nati in Italia, e che ancora non hanno diritto di cittadinanza. Con i rom sarebbero utili offerte di tipo sportivo, o teatrale, o musicale. E avremmo risultati eccellenti».

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