Ogni anno nel mondo si producono 280 milioni di tonnellate di materiali diversi chiamati, comunemente, plastica.
GreenReport - I chimici preferiscono chiamarli polimeri (termoplastico o termoindurenti) per il fatto che sono composti da lunghe catene. Le plastiche di cui parliamo sono in genere di origine sintetica e vengono prodotte a partire da molecole molto più piccole, chiamate monomeri. Una catena di polietilene, per esempio, può essere costituita anche da una successione di decine e persino centinaia di migliaia del suo monomero, l'etilene (che i rigoristi dello IUPAC preferiscono chiamare etene).
Qualcuno ha definito la nostra come l'"era della plastica", grazie al successo che questa categoria di materiali di sintesi ha avuto negli ultimi decenni. I motivi di questo successo sono diversi: le plastiche sono funzionali e versatili, leggere e inerti. Per questo le troviamo dappertutto.
Anche dove non dovremmo.
Dei 280 milioni di tonnellate di plastiche che si producono ogni anno nel mondo, infatti, solo 130 milioni di tonnellate, meno della metà, dopo l'uso finiscono in discarica o vengono riciclate. I restanti 150 milioni di tonnellate o sono ancora in uso oppure finiscono nell'ambiente.
E, infatti, passeggiando lungo una spiaggia o in un bosco è molto facile imbattersi in rifiuti di plastica. Non uno spettacolo bello da vedere. A maggior ragione perché quei rifiuti imbrattanti sono il frutto, soprattutto, della maleducazione di chi li abbandona nell'ambiente.
Tuttavia le plastiche abbandonate nell'ambiente non producono solo inquinamento estetico. Non sono solo brutte da vedere. Producono anche dei danni. Secondo il segretario della Convenzione delle Nazioni Unite sulla Diversità Biologica, per esempio, le plastiche che finiscono in mare costituiscono un pericolo per tutte le specie di tartarughe, per il 45% dei mammiferi marini e per il 21% degli uccelli marini.
Il rischio accertato con solide prove scientifiche è quello fisico: un delfino che inghiotte una busta di plastica, per esempio. Tuttavia ci sono sufficienti indizi che le plastiche possano costituire, per alcune specie animali, anche un pericolo di tipo chimico. Che deriva in primo luogo dagli additivi, spesso tossici, che alcune di esse contengono, ma anche dalla loro stessa degradazione. O, infine, da sostanze tossiche che le plastiche possono assorbire. Secondo lo United Nations' Globally Harmonized System of Classification and Labelling of Chemicals, una sostanza su due contenuta nei materiali plastici in uso è un potenziale inquinante chimico. Inquinanti organici, anche clorurati, risultano in concentrazioni da cento a un milione di volte superiori nei luoghi ove si concentrano rifiuti plastici.
Le plastiche dunque inquinano. Una complicazione è data dal fatto che poche plastiche vengono riciclate (il 9% nel mondo, secondo Nature).
Dunque, che fare?
A questa domanda la rivista Nature ha dedicato molta attenzione la scorsa settimana. E ha pubblicato una provocatoria proposta di un gruppo di ricercatori americani guidati da Chelsea M. Rochman, che lavora alla School of Veterinary Medicine della University of California di Davis, e Mark Anthony Browne, che lavora al National Center for Ecological Analysis and Synthesis di Santa Barbara sempre in California. La provocazione consiste nel riclassificare i rifiuti plastici. Da semplici rifiuti solidi urbani, così come vengono definiti nella gran parte delle legislazioni dei paesi di tutto il mondo, in rifiuti tossici e pericolosi. Con la nuova classificazione, sostengono i ricercatori, si potrebbe intervenire sia a monte (produzione) che a valle (gestione dei rifiuti) in modo da minimizzare il rischio.
La proposta appare un po' tranchant, anche perché le plastiche non sono tutte uguali. E poi - ne sappiamo qualcosa in Italia - non basta classificare come tossico e nocivo un rifiuto per eliminare il rischio o migliorarne la raccolta e il successivo avvio al riciclo. Anzi.
Meno provocatoria e certo più convincente appare l'altra proposta che emerge dalle pagine di Nature, che è quella di mettersi al lavoro per cercare sostituti ecologicamente sostenibili. O biodegradabili o più facilmente riciclabili. Molti, in realtà, hanno già colto la sfida. Ci sono, per esempio, materiali plastici in fibre naturali che, con le medesime prestazioni funzionali delle vecchie plastiche, risultano biodegradabili al 100%.
Tuttavia il problema esiste. E dunque la provocazione dei ricercatori americani è utile. Anche perché, in regime di business as usual, nel 2050 il mondo si troverebbe a confrontarsi con 33 miliardi di tonnellate di materiali plastici. Una quantità sufficiente a riempire 2 miliardi e 750 milioni di camion dell'immondizia che, messi uno dietro l'altro, farebbero 800 volte il giro della Terra.
GreenReport - I chimici preferiscono chiamarli polimeri (termoplastico o termoindurenti) per il fatto che sono composti da lunghe catene. Le plastiche di cui parliamo sono in genere di origine sintetica e vengono prodotte a partire da molecole molto più piccole, chiamate monomeri. Una catena di polietilene, per esempio, può essere costituita anche da una successione di decine e persino centinaia di migliaia del suo monomero, l'etilene (che i rigoristi dello IUPAC preferiscono chiamare etene).
Qualcuno ha definito la nostra come l'"era della plastica", grazie al successo che questa categoria di materiali di sintesi ha avuto negli ultimi decenni. I motivi di questo successo sono diversi: le plastiche sono funzionali e versatili, leggere e inerti. Per questo le troviamo dappertutto.
Anche dove non dovremmo.
Dei 280 milioni di tonnellate di plastiche che si producono ogni anno nel mondo, infatti, solo 130 milioni di tonnellate, meno della metà, dopo l'uso finiscono in discarica o vengono riciclate. I restanti 150 milioni di tonnellate o sono ancora in uso oppure finiscono nell'ambiente.
E, infatti, passeggiando lungo una spiaggia o in un bosco è molto facile imbattersi in rifiuti di plastica. Non uno spettacolo bello da vedere. A maggior ragione perché quei rifiuti imbrattanti sono il frutto, soprattutto, della maleducazione di chi li abbandona nell'ambiente.
Tuttavia le plastiche abbandonate nell'ambiente non producono solo inquinamento estetico. Non sono solo brutte da vedere. Producono anche dei danni. Secondo il segretario della Convenzione delle Nazioni Unite sulla Diversità Biologica, per esempio, le plastiche che finiscono in mare costituiscono un pericolo per tutte le specie di tartarughe, per il 45% dei mammiferi marini e per il 21% degli uccelli marini.
Il rischio accertato con solide prove scientifiche è quello fisico: un delfino che inghiotte una busta di plastica, per esempio. Tuttavia ci sono sufficienti indizi che le plastiche possano costituire, per alcune specie animali, anche un pericolo di tipo chimico. Che deriva in primo luogo dagli additivi, spesso tossici, che alcune di esse contengono, ma anche dalla loro stessa degradazione. O, infine, da sostanze tossiche che le plastiche possono assorbire. Secondo lo United Nations' Globally Harmonized System of Classification and Labelling of Chemicals, una sostanza su due contenuta nei materiali plastici in uso è un potenziale inquinante chimico. Inquinanti organici, anche clorurati, risultano in concentrazioni da cento a un milione di volte superiori nei luoghi ove si concentrano rifiuti plastici.
Le plastiche dunque inquinano. Una complicazione è data dal fatto che poche plastiche vengono riciclate (il 9% nel mondo, secondo Nature).
Dunque, che fare?
A questa domanda la rivista Nature ha dedicato molta attenzione la scorsa settimana. E ha pubblicato una provocatoria proposta di un gruppo di ricercatori americani guidati da Chelsea M. Rochman, che lavora alla School of Veterinary Medicine della University of California di Davis, e Mark Anthony Browne, che lavora al National Center for Ecological Analysis and Synthesis di Santa Barbara sempre in California. La provocazione consiste nel riclassificare i rifiuti plastici. Da semplici rifiuti solidi urbani, così come vengono definiti nella gran parte delle legislazioni dei paesi di tutto il mondo, in rifiuti tossici e pericolosi. Con la nuova classificazione, sostengono i ricercatori, si potrebbe intervenire sia a monte (produzione) che a valle (gestione dei rifiuti) in modo da minimizzare il rischio.
La proposta appare un po' tranchant, anche perché le plastiche non sono tutte uguali. E poi - ne sappiamo qualcosa in Italia - non basta classificare come tossico e nocivo un rifiuto per eliminare il rischio o migliorarne la raccolta e il successivo avvio al riciclo. Anzi.
Meno provocatoria e certo più convincente appare l'altra proposta che emerge dalle pagine di Nature, che è quella di mettersi al lavoro per cercare sostituti ecologicamente sostenibili. O biodegradabili o più facilmente riciclabili. Molti, in realtà, hanno già colto la sfida. Ci sono, per esempio, materiali plastici in fibre naturali che, con le medesime prestazioni funzionali delle vecchie plastiche, risultano biodegradabili al 100%.
Tuttavia il problema esiste. E dunque la provocazione dei ricercatori americani è utile. Anche perché, in regime di business as usual, nel 2050 il mondo si troverebbe a confrontarsi con 33 miliardi di tonnellate di materiali plastici. Una quantità sufficiente a riempire 2 miliardi e 750 milioni di camion dell'immondizia che, messi uno dietro l'altro, farebbero 800 volte il giro della Terra.
Pietro Greco
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