Riflessioni tra la caccia alle porpore per le chiese di Roma e l’“extra omnes”
di Paolo Fucili
Uno è lo scapestrato, il ribelle, l’insofferente verso vincoli ed obblighi dell’appartenenza familiare, dove il capofamiglia neppure si direbbe dei più severi. L’altro è l’inappuntabile “bravo ragazzo” responsabile e ligio ai propri doveri, o almeno così sembra. Col vivido realismo delle sue pagine più illuminanti, il Vangelo informa pure che il primo è il minore di età, l’altro il maggiore. Un “classico” della psicologia familiare, vien quasi da commentare, anche se in tempi come questi di inverno demografico va di gran moda il figlio unico. Col sopraggiungere vale a dire di fratelli rivali a cui contendere il favore di mamma e papà, molti primogeniti optano (e chissà poi perché) per la parte del figlio modello, che soddisfa tutte le richieste dei genitori, né osa mai contraddirli, perlomeno in apparenza, per conquistarsi così la propria parte di affetto da parte dei genitori.
Anche i nugoli di reporter, fotografi e cameraman che domenica han preso d’assalto le chiese di Roma hanno ascoltato magari distrattamente la parabola del figliol prodigo, il Vangelo della IV domenica di quaresima cosiddetta “laetare” (rallègrati), perché preannuncia la gioia della Pasqua; anche se in verità erano lì con ben altri intenti, intercettare e intervistare i cardinali “papabili” più quotati, andati a dir messa nelle parrocchie e chiese romane di cui son “titolari” (una sorta di “patrocinio” su una chiesa della capitale, col quale ogni nuova porpora è simbolicamente incorporata nel clero della diocesi di Roma). Risultato, gran trambusto di telecamere e microfoni, resse invereconde di cronisti, raffiche di flash indiscreti di cui non pochi, tra i fedeli, si sono a buon diritto lamentati. E pure le prede, spesso e volentieri, han lasciato a desiderare: dopo averle ostinatamente braccate, nessuno pare abbia ottenuto dichiarazioni degne di particolare nota dai presunti futuri papi.
A poche ore dall’extra omnes, l’impressione è che il gran parlare degli ultimi giorni attorno al conclave e ai suoi esiti abbia esaurito i suoi argomenti; o meglio, si è concentrato su argomenti sulla cui rilevanza effettiva le porpore di santa romana Chiesa hanno idee diverse da quelle di tanti improvvisati commentatori. O quanto meno, non hanno granché da dire al riguardo.
A dar retta a pagine e pagine di carta stampata, talk show radio-tv, voci e commenti rimbalzanti tra siti internet e social network, l’elezione di un Papa si direbbe un asettico, astruso calcolo in cui l’incrocio di una serie di fattori (età, provenienza, curriculum, attitudini, reputazione, schieramento, amicizie e avversioni, equilibri da mantenere eccetera eccetera) deve produrre un determinato identikit. Ecco perché domenica suonava quasi strano, al pensiero che al conclave mancavano due giorni appena, ascoltare i “papabili” mentre celebravano messa per i propri fedeli, al pari di un qualunque parroco dell’orbe cattolico, e anziché propinare lambiccate riflessioni di fanta-geopolitica ecclesiale a beneficio delle schiere di telecamere puntate loro addosso come plotoni di esecuzione, tanti han preferito concentrarsi su una pagina di Vangelo che quasi parla da sé, tanto radicato è quel racconto in un’elementare esperienza di famiglia di ogni tempo. Eppure, a rileggerlo e meditarla di nuovo, ogni volta dischiude un’intuizione ulteriore, un raggio di luce in più.
Se è lecito allora formulare un augurio in vista dei cruciali giorni prossimi, l’augurio è appunto che tra le porpore sia chiara, come è sembrata domenica, la consapevolezza profonda che ad un Papa oggi servono non tanto i sofisticati strumenti del “calcolare”, semmai la passione gioiosa e un po’ temeraria dello “scommettere”. Scommettere ovvero sull’attrattiva fascinosa dell’annuncio che col cristianesimo ha fatto la sua comparsa nel mondo, rivoluzionando tutti i paradigmi antichi e moderni dell’esperienza religiosa umana. Dio è un padre che corre incontro a suo figlio incurante persino dei torti che ne ha ricevuto. Non se ne sta sdegnoso in cielo, indifferente ai nostri destini di sue creature, mentre nell’ignoranza di chi sia Dio e cosa voglia da noi ce ne guardiamo paurosi e diffidenti con goffi tentativi di esorcizzarne l’ira ed il castigo.
Così “funzionavano” tante religioni prima che Dio manifestasse in Cristo il suo volto di amore. Mai, insegna quella parabola, disperare del perdono di Dio e del suo amore di Padre. L’unico “requisito” è riconoscersi umilmente bisognosi di questo perdono, “step” di cui è incapace invece l’altro figlio, l’incarnazione di un’altra categoria di perniciose malattie dello spirito religioso: ridurre il rapporto con Dio ad un freddo conteggio di debiti e crediti. Quel giovane può pure vantare di aver sempre obbedito al Padre, ma non certo per averne fatta sua l’intima logica, che poi tanto logica spesso non è: l’amore che non fa calcoli, ma semplicemente ama. Il bello del cristianesimo, in estrema sintesi, è tutto qua.
Annunciare al mondo questa sconvolgente novità, fare appassionare a Dio e al suo “illogico” amore gli uomini, è il fondamentale e tutto sommato unico compito di chi presto, questione di giorni, si affaccerà trepidante e vestito di bianco su piazza San Pietro. Ai cardinali l’arduo compito di individuarlo ed eleggerlo, fiduciosi tuttavia che un sostanzioso aiuto dal cielo non mancherà; a noi quello di attenderlo speranzosi senza lasciarci frastornare da quel che fondamentale a ben vedere non è.
di Paolo Fucili
Uno è lo scapestrato, il ribelle, l’insofferente verso vincoli ed obblighi dell’appartenenza familiare, dove il capofamiglia neppure si direbbe dei più severi. L’altro è l’inappuntabile “bravo ragazzo” responsabile e ligio ai propri doveri, o almeno così sembra. Col vivido realismo delle sue pagine più illuminanti, il Vangelo informa pure che il primo è il minore di età, l’altro il maggiore. Un “classico” della psicologia familiare, vien quasi da commentare, anche se in tempi come questi di inverno demografico va di gran moda il figlio unico. Col sopraggiungere vale a dire di fratelli rivali a cui contendere il favore di mamma e papà, molti primogeniti optano (e chissà poi perché) per la parte del figlio modello, che soddisfa tutte le richieste dei genitori, né osa mai contraddirli, perlomeno in apparenza, per conquistarsi così la propria parte di affetto da parte dei genitori.
Anche i nugoli di reporter, fotografi e cameraman che domenica han preso d’assalto le chiese di Roma hanno ascoltato magari distrattamente la parabola del figliol prodigo, il Vangelo della IV domenica di quaresima cosiddetta “laetare” (rallègrati), perché preannuncia la gioia della Pasqua; anche se in verità erano lì con ben altri intenti, intercettare e intervistare i cardinali “papabili” più quotati, andati a dir messa nelle parrocchie e chiese romane di cui son “titolari” (una sorta di “patrocinio” su una chiesa della capitale, col quale ogni nuova porpora è simbolicamente incorporata nel clero della diocesi di Roma). Risultato, gran trambusto di telecamere e microfoni, resse invereconde di cronisti, raffiche di flash indiscreti di cui non pochi, tra i fedeli, si sono a buon diritto lamentati. E pure le prede, spesso e volentieri, han lasciato a desiderare: dopo averle ostinatamente braccate, nessuno pare abbia ottenuto dichiarazioni degne di particolare nota dai presunti futuri papi.
A poche ore dall’extra omnes, l’impressione è che il gran parlare degli ultimi giorni attorno al conclave e ai suoi esiti abbia esaurito i suoi argomenti; o meglio, si è concentrato su argomenti sulla cui rilevanza effettiva le porpore di santa romana Chiesa hanno idee diverse da quelle di tanti improvvisati commentatori. O quanto meno, non hanno granché da dire al riguardo.
A dar retta a pagine e pagine di carta stampata, talk show radio-tv, voci e commenti rimbalzanti tra siti internet e social network, l’elezione di un Papa si direbbe un asettico, astruso calcolo in cui l’incrocio di una serie di fattori (età, provenienza, curriculum, attitudini, reputazione, schieramento, amicizie e avversioni, equilibri da mantenere eccetera eccetera) deve produrre un determinato identikit. Ecco perché domenica suonava quasi strano, al pensiero che al conclave mancavano due giorni appena, ascoltare i “papabili” mentre celebravano messa per i propri fedeli, al pari di un qualunque parroco dell’orbe cattolico, e anziché propinare lambiccate riflessioni di fanta-geopolitica ecclesiale a beneficio delle schiere di telecamere puntate loro addosso come plotoni di esecuzione, tanti han preferito concentrarsi su una pagina di Vangelo che quasi parla da sé, tanto radicato è quel racconto in un’elementare esperienza di famiglia di ogni tempo. Eppure, a rileggerlo e meditarla di nuovo, ogni volta dischiude un’intuizione ulteriore, un raggio di luce in più.
Se è lecito allora formulare un augurio in vista dei cruciali giorni prossimi, l’augurio è appunto che tra le porpore sia chiara, come è sembrata domenica, la consapevolezza profonda che ad un Papa oggi servono non tanto i sofisticati strumenti del “calcolare”, semmai la passione gioiosa e un po’ temeraria dello “scommettere”. Scommettere ovvero sull’attrattiva fascinosa dell’annuncio che col cristianesimo ha fatto la sua comparsa nel mondo, rivoluzionando tutti i paradigmi antichi e moderni dell’esperienza religiosa umana. Dio è un padre che corre incontro a suo figlio incurante persino dei torti che ne ha ricevuto. Non se ne sta sdegnoso in cielo, indifferente ai nostri destini di sue creature, mentre nell’ignoranza di chi sia Dio e cosa voglia da noi ce ne guardiamo paurosi e diffidenti con goffi tentativi di esorcizzarne l’ira ed il castigo.
Così “funzionavano” tante religioni prima che Dio manifestasse in Cristo il suo volto di amore. Mai, insegna quella parabola, disperare del perdono di Dio e del suo amore di Padre. L’unico “requisito” è riconoscersi umilmente bisognosi di questo perdono, “step” di cui è incapace invece l’altro figlio, l’incarnazione di un’altra categoria di perniciose malattie dello spirito religioso: ridurre il rapporto con Dio ad un freddo conteggio di debiti e crediti. Quel giovane può pure vantare di aver sempre obbedito al Padre, ma non certo per averne fatta sua l’intima logica, che poi tanto logica spesso non è: l’amore che non fa calcoli, ma semplicemente ama. Il bello del cristianesimo, in estrema sintesi, è tutto qua.
Annunciare al mondo questa sconvolgente novità, fare appassionare a Dio e al suo “illogico” amore gli uomini, è il fondamentale e tutto sommato unico compito di chi presto, questione di giorni, si affaccerà trepidante e vestito di bianco su piazza San Pietro. Ai cardinali l’arduo compito di individuarlo ed eleggerlo, fiduciosi tuttavia che un sostanzioso aiuto dal cielo non mancherà; a noi quello di attenderlo speranzosi senza lasciarci frastornare da quel che fondamentale a ben vedere non è.
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È presente 1 commento
La capacità di far appassionare a Dio e al suo illogico amore gli uomini,richiede una grande capacità comunicativa
,una testimonianza che deve venire dalla vita ,vita che si deve rispecchiare in Gesù Cristo e in Lui solo.
Di quante cose si deve spogliare la chiesa per poter annunciare agli uominu di oggi ,il volto di Dio ,Padre misericordioso e innamorato del'uomo.Lo Spirito Santo,illumini i cardinali riuniti in conclave ,parli al cuore di ciascuno di loro perchè in questi tempi così bui per il mondo ci venga donato il papa del quale la chiesa ha bisogno
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