Suor Roberta Vinerba, suora francescana diocesana, docente di teologia morale e direttrice della scuola diocesana di teologia di Perugia, ci accompagna nella riflessione del Padre Nostro sulla frase “Non abbandonarci alla tentazione”
Grazia Deledda intitolò il suo romanzo più famoso “Canne al vento” per indicarne da subito l’idea- madre: l’uomo è così, è qualcuno che per tutta la vita deve fare i conti con la propria fragilità. Mi ha sempre colpito questa immagine dell’uomo come di una semplice canna che corre sempre il rischio dello schianto se il colpo di vento è troppo forte. La petizione “non c’indurre in tentazione”, o come suggerisce la nuova traduzione “non abbandonarci alla tentazione”, entra nel vivo della questione fragilità. Con questa umile richiesta, da un lato confessiamo di essere sempre esposti alla tragica possibilità di assecondare l’anticristo, dall’altro che il Padre conosce la nostra condizione e se ne prende cura. Non è questa la sede per esaminare in dettaglio gli aspetti della tentazione, la sua relazione con la prova, con il dolore; quello che mi sembra essenziale, soprattutto nelle vicinanze della Settimana Santa e della Pasqua, è affondare lo sguardo sul Crocifisso, su Colui che il Padre ha mandato perché l’uomo non muoia, ma assapori la vita eterna. Nessuno è esente dalla tentazione: Cristo lo è stato per entrare pienamente nel dramma umano e per indicarci una strada vincente. Eppure quel tentatore che fu sconfitto nel deserto tornò ancora, nel tempo stabilito, quello della croce, per continuare il suo lavoro. Un lavoro definitivamente sconfitto dal morire in Croce del Signore sicuro tra le braccia del Padre e senza accuse nei confronti dell’uomo.
Il mestiere del tentatore consiste nell’instillare nell’uomo il dubbio su Dio. Veramente Dio esiste? Veramente Dio è buono? Veramente si ricorda di me mentre soffro? Veramente Dio vuole per me la croce? E così via. Dio non vuole il male per i suoi figli. Dio non gode del nostro dolore. Eppure permette che siamo esposti a questa voce insinuante. Perché? Perché la lotta ci irrobustisce, sviluppa in noi quei muscoli spirituali che ci sono necessari per divenire uomini e donne forti nella fede, nella speranza e nella carità. La tentazione non serve a Dio per sapere lo stato della nostra fede, serve a noi per comprendere quello che c’è davvero nel nostro cuore.
Nella prosperità tutto sembra scontato, quando la preghiera è un sostegno e quando la chiesa corrisponde ai nostri desideri è facile credere. Ma quando la vita è sottoposta alla prova, quando nella prova compare l’interpretazione diabolica della nostra storia, ecco che siamo chiamati, volenti o nolenti, a fare una scelta di campo: chi non è con me, disperde (Cfr. Lc 11,23), dice il Signore. Per quello che mi riguarda, ho sempre immaginato la tentazione come il ferro capace di ri-orientare l’ago della calamita verso il nord. Il ferro è duro, la tentazione lo è di più: eppure ci aiuta a comprendere la durezza della vita senza Dio e ci induce a convertirci a Lui, a volgere i nostri passi incontro a Lui. In questa durezza, nella misura in cui ci rivolgiamo con confidenza al Padre chiedendogli di soccorrerci, di non permettere di essere tentati al di là delle nostre forze, sperimentiamo, per la misericordia di Dio, il suo soccorso che è sempre esperienza di Pasqua, passaggio da morte a vita. Volgendoci indietro, superata la tentazione, siamo resi capaci del canto di Mosè, del canto dei redenti, del canto nuovo dell’Agnello.
Non va dimenticato, inoltre, che il discorso della tentazione ci introduce all’asprezza della vita in un tempo nel quale siamo, in modo particolare, nemici di qualunque asprezza, respingiamo tutto ciò che è difficile, duro, ciò che costa fatica. Ci resta inconcepibile la spiritualità dei lottatori del deserto, dei grandi santi e dei mistici che invocavano per sé la lotta contro il maligno per partecipare alla vittoria di Cristo. Così come amiamo la vita melliflua, amiamo anche la spiritualità debole, dolciastra, priva di spessore. La petizione penultima del Padre nostro ci ricorda invece che la pedagogia di Dio è esigente come deve esserlo l’amore vero e che anche la tentazione, che proviene dal maligno, per l’onnipotenza di Dio e la libera volontà dell’uomo, diviene materiale buono per la costruzione di quella casa sulla roccia che è la vita dei figli di Dio.
Grazia Deledda intitolò il suo romanzo più famoso “Canne al vento” per indicarne da subito l’idea- madre: l’uomo è così, è qualcuno che per tutta la vita deve fare i conti con la propria fragilità. Mi ha sempre colpito questa immagine dell’uomo come di una semplice canna che corre sempre il rischio dello schianto se il colpo di vento è troppo forte. La petizione “non c’indurre in tentazione”, o come suggerisce la nuova traduzione “non abbandonarci alla tentazione”, entra nel vivo della questione fragilità. Con questa umile richiesta, da un lato confessiamo di essere sempre esposti alla tragica possibilità di assecondare l’anticristo, dall’altro che il Padre conosce la nostra condizione e se ne prende cura. Non è questa la sede per esaminare in dettaglio gli aspetti della tentazione, la sua relazione con la prova, con il dolore; quello che mi sembra essenziale, soprattutto nelle vicinanze della Settimana Santa e della Pasqua, è affondare lo sguardo sul Crocifisso, su Colui che il Padre ha mandato perché l’uomo non muoia, ma assapori la vita eterna. Nessuno è esente dalla tentazione: Cristo lo è stato per entrare pienamente nel dramma umano e per indicarci una strada vincente. Eppure quel tentatore che fu sconfitto nel deserto tornò ancora, nel tempo stabilito, quello della croce, per continuare il suo lavoro. Un lavoro definitivamente sconfitto dal morire in Croce del Signore sicuro tra le braccia del Padre e senza accuse nei confronti dell’uomo.
Il mestiere del tentatore consiste nell’instillare nell’uomo il dubbio su Dio. Veramente Dio esiste? Veramente Dio è buono? Veramente si ricorda di me mentre soffro? Veramente Dio vuole per me la croce? E così via. Dio non vuole il male per i suoi figli. Dio non gode del nostro dolore. Eppure permette che siamo esposti a questa voce insinuante. Perché? Perché la lotta ci irrobustisce, sviluppa in noi quei muscoli spirituali che ci sono necessari per divenire uomini e donne forti nella fede, nella speranza e nella carità. La tentazione non serve a Dio per sapere lo stato della nostra fede, serve a noi per comprendere quello che c’è davvero nel nostro cuore.
Nella prosperità tutto sembra scontato, quando la preghiera è un sostegno e quando la chiesa corrisponde ai nostri desideri è facile credere. Ma quando la vita è sottoposta alla prova, quando nella prova compare l’interpretazione diabolica della nostra storia, ecco che siamo chiamati, volenti o nolenti, a fare una scelta di campo: chi non è con me, disperde (Cfr. Lc 11,23), dice il Signore. Per quello che mi riguarda, ho sempre immaginato la tentazione come il ferro capace di ri-orientare l’ago della calamita verso il nord. Il ferro è duro, la tentazione lo è di più: eppure ci aiuta a comprendere la durezza della vita senza Dio e ci induce a convertirci a Lui, a volgere i nostri passi incontro a Lui. In questa durezza, nella misura in cui ci rivolgiamo con confidenza al Padre chiedendogli di soccorrerci, di non permettere di essere tentati al di là delle nostre forze, sperimentiamo, per la misericordia di Dio, il suo soccorso che è sempre esperienza di Pasqua, passaggio da morte a vita. Volgendoci indietro, superata la tentazione, siamo resi capaci del canto di Mosè, del canto dei redenti, del canto nuovo dell’Agnello.
Non va dimenticato, inoltre, che il discorso della tentazione ci introduce all’asprezza della vita in un tempo nel quale siamo, in modo particolare, nemici di qualunque asprezza, respingiamo tutto ciò che è difficile, duro, ciò che costa fatica. Ci resta inconcepibile la spiritualità dei lottatori del deserto, dei grandi santi e dei mistici che invocavano per sé la lotta contro il maligno per partecipare alla vittoria di Cristo. Così come amiamo la vita melliflua, amiamo anche la spiritualità debole, dolciastra, priva di spessore. La petizione penultima del Padre nostro ci ricorda invece che la pedagogia di Dio è esigente come deve esserlo l’amore vero e che anche la tentazione, che proviene dal maligno, per l’onnipotenza di Dio e la libera volontà dell’uomo, diviene materiale buono per la costruzione di quella casa sulla roccia che è la vita dei figli di Dio.
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