Ad Assisi dal 20 aprile al 18 agosto sarà dedicata al rapporto tra la Scrittura Sacra e l'Arte una mostra dal titolo "Dalla Parola, l'Immagine. L'Arte che legge la Bibbia". In esposizione opere grafiche di Rembrandt, Chagall e Dalì, oltre che una mostra didattica sull’evoluzione e il significato del testo sacro. Ne parla Padre Saul Tambini, Presidente del MEU (Musei Ecclesistici Umbri, www.museiecclesiastici.it) e responsabile del Museo della Porziuncola di Santa Maria degli Angeli di Assisi
«Ho la sensazione che sia possibile avvicinarsi alla dimensione religiosa attraverso l'arte. Ho percepito il senso religioso ascoltando Johann Sebastian Bach, la sua musica è stata per me la porta d’ingresso verso i libri ebraici, il portone per poter poi leggere i testi della mia tradizione. Era come se avessi bisogno di un input sensorio e Bach per me è stato questo. Ricordo la grande impressione che mi facevano le due cameriere che erano nella casa dei miei genitori, quando estraevano le loro icone e cadevano ai loro piedi in ginocchio per pregare. Fu forse la prima espressione religiosa concreta che incontrai. È un interessante paradosso: sono arrivato alla fede e alla religiosità tramite il Cristianesimo. A un certo punto accadde un miracolo: a vent'anni circa iniziai a scrivere. […] L'arte fornisce l'aspetto particolare della vita, i particolari della vita, non le teorie astratte. Lo scrittore ha a che vedere con una persona, con un bambino che ha un nome, che vive in un luogo, il particolare è quindi una necessità per qualsiasi forma d'arte. D'altro canto la buona arte deve avere un'importanza universale: se non è universale, non è arte» (Corriere della Sera, 23 agosto 2008).
Sono parole tratte da un’intervista di alcuni anni fa ad uno straordinario scrittore israeliano, Appelfeld Aharon, con le quali egli esprimeva gratitudine all’arte cristiana per avergli offerto l’opportunità di approfondire, e in qualche modo di ritornare, alla sua fede ebraica. Chi non è estraneo alla fede cattolica, non può non rimanere sorpreso da queste parole, non può non sentirne il paradosso. Lo stupore risiede nel fatto che, se sempre si può essere percepito, pur in modo discontinuo, il valore strumentale dell’arte per la fede, difficilmente sarà risultato ovvio che la stessa arte, sorta in seno alla Chiesa come sua espressione propria, potesse risultare persuasiva per la fede di un’altra confessione, addirittura per un’altra fede religiosa o potesse favorirne perfino l’approdo. I paradossi aumentano se pensiamo alla peculiarità della fede ebraica, e alla considerazione che si ha – che si deve avere per il comandamento divino – in quella religione circa l’arte in genere e l’immagine in particolare.
Sul fatto della funzione dell’arte in seno alla fede cristiana ci potranno essere perplessità, tuttavia sembra proprio assodato sia il significato ancillare dell’arte sacra nel contesto della missione ecclesiale, sia il suo valore estetico, che risiede nel suo carattere potentemente evocativo. Certamente non si può considerare l’arte sacra sradicandola dalla sua funzione primigenia, che la vede strumentale alla parola cristiana, al suo doveroso annuncio. Il Concilio Vaticano II si è chiaramente espresso in merito nella Sacrosanctum Concilium: «La santa madre Chiesa ha sempre favorito le belle arti, ed ha sempre ricercato il loro nobile servizio, specialmente per far sì che le cose appartenenti al culto sacro splendessero veramente per dignità, decoro e bellezza, per significare e simbolizzare le realtà soprannaturali» (Concilio Vaticano II, Sacrosanctum Concilium, 122). Un compito che l’arte sacra ha sempre assolto in un’impressionante multiformità di manifestazione, in base all’esigenza del momento o alla peculiarità della spiritualità da cui derivava committenza. Ma ciò che è da sempre proprio dell’arte, e che impedisce di relegarla a mera didascalia, è la sua potente capacità evocativa; si tratta infatti di uno strumento in grado di suscitare senza obbligatoriamente descrivere. L’arte sacra ha avuto in questo il merito di sostenere l’annuncio cristiano e la sua finalità salvifica, ma anche e soprattutto di orientare e ispirare il credente, di evocare il Mistero per il mezzo della persuasione estetica. L’artista, per quanto asservito al committente di turno o al pensiero del momento, non fu mai semplicemente esecutore di dettato, foss’anche di quello teologico. Non lo potrebbe essere nemmeno lo volesse, perché l’arte non è affermazione. L’arte è evocazione ed espressione, l’artista perciò è sempre interprete creativo. È un motivo che si può facilmente cogliere osservando un paradosso ulteriore. Una delle qualità dell’arte, forse la più evidente, dimora nella sua “invadenza”; se la parola infatti rivela, oltre ogni interpretazione, l’arte violentemente denuncia. E’ un segno prepotente quello dell’arte, che si impone in modo quasi dogmatico. L’arte ha il potere persuasivo dell’indicazione. Aldilà di ogni definizione rimane segno. Eppure - e le parole di Haron ne sono una conferma - nulla ha una natura più evocativa dell’arte. Qualche anno fa Cacciari sosteneva che «mai il Verbum è stato predicato con più forza che da questa figura silenziosa e sola (il Risorto di Sansepolcro di Piero della Francesca ndr). Essa apre, attraverso la sua pura presenza, all’idea dell’im-possibile per noi, e cioè della possibilità estrema che avvenga, che si dia la capacità di corrispondere alla misura di libertà, di conoscenza e di dono che in lui, per un’unica volta, si è incarnata». (Massimo Cacciari, Tre icone, Milano 2007, 41). Un’opera d’arte ha questa sua qualità intrinseca di evocare il mistero oltre ogni parola, e talora al posto di ogni parola.
Pur in modo dialettico, e con alterne vicende, l’arte sacra ha sempre perciò risposto a questa duplice esigenza. Ciò che invece evoca Aharon con le sue riflessioni è non tanto la realtà di una funzione ulteriore dell’arte, oltre queste due necessità, quanto un suo naturale carattere universale. Il valore universale si riconosce soprattutto dalla capacità di ispirare in modo indifferenziato l’interlocutore dell’opera, e di orientarlo verso un’origine o una memoria, facendolo però in modo né arbitrario né preordinato, oltretutto facendolo descrivendo immediatamente il particolare. Se così è, allora, dobbiamo pensare ad uno statuto più profondo e più vasto per l’arte sacra. La questione consiste nell’incontro tra parola e immagine, se vi sia e dove stia. E’ una vetero-questione, a quanto pare però irrisolta. Le soluzioni nei fatti stanno o in un annullamento reciproco, lì dove l’arte raggiunge l’approdo della dissolvenza, e la parola i tratti dell’ideologia, oppure in un sofisticato punto di equilibrio, un incontro in una sorta di terra di mezzo, non sempre e necessariamente feconda. «Due principi hanno dominato la pittura occidentale dal quindicesimo al ventesimo secolo. Il primo afferma la separazione tra rappresentazione plastica (che implica la somiglianza) e referenza linguistica (che la esclude). Si fa vedere mediante la somiglianza, si parla attraverso la differenza. Così che i due sistemi non possono intersecarsi né fondersi. Bisogna che ci sia in un modo o nell’altro subordinazione. […] Il secondo principio che ha regolato a lungo la pittura stabilisce l’equivalenza tra il fatto della somiglianza e l’affermazione di un legame rappresentativo» (M. Foucault, Questo non è una pipa, Milano 1988, 42-47). La riflessione di Foucault – il quale vede in Klee e in Kandinskij i rappresentanti più qualificati di queste contrapposte posizioni (e come dargli torto) - mi sembra appropriata e veritiera. L’incontro tra Parola e immagine, in generale tra pensiero e arte, non potrà trovarsi in un incontro pur felice al centro o ai margini del loro esercizio. Dove quindi?
Si deve riconoscere che non si può far comunicare questi due mondi, apparentemente inconciliabili, senza pensare per loro non tanto una funzione comune o speculare, quanto radicarli di nuovo a ciò che li origina: il loro principio assoluto. Senza ammettere che la provenienza, il “da-dove” di cui parla Weishedel, sia la medesima, non si potrà mai risolvere una questione, di suo irrisolvibile, come se entrambi si riproducessero per partenogenesi. È questa provenienza assoluta che determina il carattere universale dell’arte e il suo ispirare il credente in modo, se non arbitrario, certo libero. È ancora questa provenienza assoluta che garantisce non solo una comunicabilità tra poli così distanti, ma anche una loro conciliabilità, senza che questa debba cedere alla subordinazione o alla dissolvenza di una delle parti. Del resto, la provenienza da una sola origine è resa più evidente proprio dal carattere universale dell’arte, così come sottolineato da Aharon. Ci può in questo aiutare Mondrian, uno degli artisti più convintamente propugnatori dell’universalità: «Sebbene l’arte, da un lato, sia l’espressione plastica della nostra emozione estetica, non possiamo dedurne che si riduca all’espressione estetica delle nostre sensazioni soggettive. Logica vuole che l’arte sia l’espressione plastica del non-individuale, che ne è l’opposizione assoluta annullante, quanto l’espressione diretta dell’universale che è in noi, ossia l’esatta manifestazione dell’universale fuori di noi» (Piet Mondrian, Il neoplasticismo, Milano 2008, 13). È stata l’insistenza del carattere espressivo dell’arte che non le ha assicurato il diritto di essere autorevole sul piano noetico, così come il carattere logico–formale della parola, la sua attenzione legittima al particolare, che non sempre le ha garantito ricezione sul piano estetico ed evocativo. Ci vuole perciò un riconoscimento più profondo dello statuto dell’arte in quanto proveniente da una sorgente assoluta da cui origina la stessa parola. Peraltro, la cosa è del tutto palese quando si riflette sull’arte sacra, sull’icona in particolare, in cui l’artista risponde ad una sorta di vincolo, ad una obbligazione. L’opera infatti non è da lui posseduta, ma in qualche modo lo possiede: «Ha ragione Pavel Floorenskij: Andrej (Rublëv) non è libero di “creare”; egli deve realizzare quella visione della Trinità che san Sergio – come recitano le agiografie - aveva avuto fin nel grembo materno e aveva trasmesso ai discepoli» (Massimo cacciari, Tre icone, Milano 2007, 13). Di fronte ad un’opera come quella della Trinità di Rublëv, ci rendiamo conto di quanto l’arte descriva ed evochi in forza di un’ispirazione e di un’obbligazione, mostrando ciò che è universale in noi.
La stessa persuasione che abbiamo così riservato all’arte dovremo garantirla alla Parola. La stessa Chiesa, che avrebbe tutto l’interesse di conservare un’immagine vincolante alla Parola, recita solennemente: «La Parola di Dio precede ed eccede la Bibbia, che pure è “ispirata da Dio” e contiene la parola divina efficace (cf. 2 Tm 3, 16). È per questo che la nostra fede non ha al centro solo un libro, ma una storia di salvezza e, come vedremo, una persona, Gesù Cristo, Parola di Dio fatta carne, uomo, storia. Proprio perché l’orizzonte della parola divina abbraccia e si estende oltre la Scrittura, è necessaria la costante presenza dello Spirito Santo che «guida a tutta la verità» (Gv 16, 13) chi legge la Bibbia» (Messaggio al Popolo di Dio della XII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, 24 ottobre 2008). Dire “Parola di Dio” non significa perciò stesso dire Sacra Scrittura, ma contemplare il “mistero della Sua volontà” Cfr. Dei verbum) che viene alla parola, alla scrittura. Il Papa Benedetto XVI riformula questa considerazione con parole nette e solenni: «In realtà il Verbo di Dio, mediante il quale “tutto è stato fatto” (Gv 1,3) e che si “fece carne” (Gv 1,14), è il medesimo che sta «in principio» (Gv 1,1). Se qui avvertiamo un’allusione all’inizio del libro della Genesi (cfr. Gen 1,1), in realtà siamo posti di fronte ad un principio di carattere assoluto e che ci narra la vita intima di Dio» (Verbum domini, 6). Ritroviamo qui quel principio assoluto che abbiamo invocato per l’arte come sua origine, e che naturalmente sostiene e rende viva ed efficace ogni parola. Parola e immagine perciò riescono, senza fondersi, ad incontrarsi e autorevolmente a comunicare in modo fecondo la forza inesauribile del Mistero santo e universale, in forza di una provenienza assoluta e primigenia, che le ispira costantemente e che è in definitiva lo stesso Mistero.
«Ho la sensazione che sia possibile avvicinarsi alla dimensione religiosa attraverso l'arte. Ho percepito il senso religioso ascoltando Johann Sebastian Bach, la sua musica è stata per me la porta d’ingresso verso i libri ebraici, il portone per poter poi leggere i testi della mia tradizione. Era come se avessi bisogno di un input sensorio e Bach per me è stato questo. Ricordo la grande impressione che mi facevano le due cameriere che erano nella casa dei miei genitori, quando estraevano le loro icone e cadevano ai loro piedi in ginocchio per pregare. Fu forse la prima espressione religiosa concreta che incontrai. È un interessante paradosso: sono arrivato alla fede e alla religiosità tramite il Cristianesimo. A un certo punto accadde un miracolo: a vent'anni circa iniziai a scrivere. […] L'arte fornisce l'aspetto particolare della vita, i particolari della vita, non le teorie astratte. Lo scrittore ha a che vedere con una persona, con un bambino che ha un nome, che vive in un luogo, il particolare è quindi una necessità per qualsiasi forma d'arte. D'altro canto la buona arte deve avere un'importanza universale: se non è universale, non è arte» (Corriere della Sera, 23 agosto 2008).
Sono parole tratte da un’intervista di alcuni anni fa ad uno straordinario scrittore israeliano, Appelfeld Aharon, con le quali egli esprimeva gratitudine all’arte cristiana per avergli offerto l’opportunità di approfondire, e in qualche modo di ritornare, alla sua fede ebraica. Chi non è estraneo alla fede cattolica, non può non rimanere sorpreso da queste parole, non può non sentirne il paradosso. Lo stupore risiede nel fatto che, se sempre si può essere percepito, pur in modo discontinuo, il valore strumentale dell’arte per la fede, difficilmente sarà risultato ovvio che la stessa arte, sorta in seno alla Chiesa come sua espressione propria, potesse risultare persuasiva per la fede di un’altra confessione, addirittura per un’altra fede religiosa o potesse favorirne perfino l’approdo. I paradossi aumentano se pensiamo alla peculiarità della fede ebraica, e alla considerazione che si ha – che si deve avere per il comandamento divino – in quella religione circa l’arte in genere e l’immagine in particolare.
Sul fatto della funzione dell’arte in seno alla fede cristiana ci potranno essere perplessità, tuttavia sembra proprio assodato sia il significato ancillare dell’arte sacra nel contesto della missione ecclesiale, sia il suo valore estetico, che risiede nel suo carattere potentemente evocativo. Certamente non si può considerare l’arte sacra sradicandola dalla sua funzione primigenia, che la vede strumentale alla parola cristiana, al suo doveroso annuncio. Il Concilio Vaticano II si è chiaramente espresso in merito nella Sacrosanctum Concilium: «La santa madre Chiesa ha sempre favorito le belle arti, ed ha sempre ricercato il loro nobile servizio, specialmente per far sì che le cose appartenenti al culto sacro splendessero veramente per dignità, decoro e bellezza, per significare e simbolizzare le realtà soprannaturali» (Concilio Vaticano II, Sacrosanctum Concilium, 122). Un compito che l’arte sacra ha sempre assolto in un’impressionante multiformità di manifestazione, in base all’esigenza del momento o alla peculiarità della spiritualità da cui derivava committenza. Ma ciò che è da sempre proprio dell’arte, e che impedisce di relegarla a mera didascalia, è la sua potente capacità evocativa; si tratta infatti di uno strumento in grado di suscitare senza obbligatoriamente descrivere. L’arte sacra ha avuto in questo il merito di sostenere l’annuncio cristiano e la sua finalità salvifica, ma anche e soprattutto di orientare e ispirare il credente, di evocare il Mistero per il mezzo della persuasione estetica. L’artista, per quanto asservito al committente di turno o al pensiero del momento, non fu mai semplicemente esecutore di dettato, foss’anche di quello teologico. Non lo potrebbe essere nemmeno lo volesse, perché l’arte non è affermazione. L’arte è evocazione ed espressione, l’artista perciò è sempre interprete creativo. È un motivo che si può facilmente cogliere osservando un paradosso ulteriore. Una delle qualità dell’arte, forse la più evidente, dimora nella sua “invadenza”; se la parola infatti rivela, oltre ogni interpretazione, l’arte violentemente denuncia. E’ un segno prepotente quello dell’arte, che si impone in modo quasi dogmatico. L’arte ha il potere persuasivo dell’indicazione. Aldilà di ogni definizione rimane segno. Eppure - e le parole di Haron ne sono una conferma - nulla ha una natura più evocativa dell’arte. Qualche anno fa Cacciari sosteneva che «mai il Verbum è stato predicato con più forza che da questa figura silenziosa e sola (il Risorto di Sansepolcro di Piero della Francesca ndr). Essa apre, attraverso la sua pura presenza, all’idea dell’im-possibile per noi, e cioè della possibilità estrema che avvenga, che si dia la capacità di corrispondere alla misura di libertà, di conoscenza e di dono che in lui, per un’unica volta, si è incarnata». (Massimo Cacciari, Tre icone, Milano 2007, 41). Un’opera d’arte ha questa sua qualità intrinseca di evocare il mistero oltre ogni parola, e talora al posto di ogni parola.
Pur in modo dialettico, e con alterne vicende, l’arte sacra ha sempre perciò risposto a questa duplice esigenza. Ciò che invece evoca Aharon con le sue riflessioni è non tanto la realtà di una funzione ulteriore dell’arte, oltre queste due necessità, quanto un suo naturale carattere universale. Il valore universale si riconosce soprattutto dalla capacità di ispirare in modo indifferenziato l’interlocutore dell’opera, e di orientarlo verso un’origine o una memoria, facendolo però in modo né arbitrario né preordinato, oltretutto facendolo descrivendo immediatamente il particolare. Se così è, allora, dobbiamo pensare ad uno statuto più profondo e più vasto per l’arte sacra. La questione consiste nell’incontro tra parola e immagine, se vi sia e dove stia. E’ una vetero-questione, a quanto pare però irrisolta. Le soluzioni nei fatti stanno o in un annullamento reciproco, lì dove l’arte raggiunge l’approdo della dissolvenza, e la parola i tratti dell’ideologia, oppure in un sofisticato punto di equilibrio, un incontro in una sorta di terra di mezzo, non sempre e necessariamente feconda. «Due principi hanno dominato la pittura occidentale dal quindicesimo al ventesimo secolo. Il primo afferma la separazione tra rappresentazione plastica (che implica la somiglianza) e referenza linguistica (che la esclude). Si fa vedere mediante la somiglianza, si parla attraverso la differenza. Così che i due sistemi non possono intersecarsi né fondersi. Bisogna che ci sia in un modo o nell’altro subordinazione. […] Il secondo principio che ha regolato a lungo la pittura stabilisce l’equivalenza tra il fatto della somiglianza e l’affermazione di un legame rappresentativo» (M. Foucault, Questo non è una pipa, Milano 1988, 42-47). La riflessione di Foucault – il quale vede in Klee e in Kandinskij i rappresentanti più qualificati di queste contrapposte posizioni (e come dargli torto) - mi sembra appropriata e veritiera. L’incontro tra Parola e immagine, in generale tra pensiero e arte, non potrà trovarsi in un incontro pur felice al centro o ai margini del loro esercizio. Dove quindi?
Si deve riconoscere che non si può far comunicare questi due mondi, apparentemente inconciliabili, senza pensare per loro non tanto una funzione comune o speculare, quanto radicarli di nuovo a ciò che li origina: il loro principio assoluto. Senza ammettere che la provenienza, il “da-dove” di cui parla Weishedel, sia la medesima, non si potrà mai risolvere una questione, di suo irrisolvibile, come se entrambi si riproducessero per partenogenesi. È questa provenienza assoluta che determina il carattere universale dell’arte e il suo ispirare il credente in modo, se non arbitrario, certo libero. È ancora questa provenienza assoluta che garantisce non solo una comunicabilità tra poli così distanti, ma anche una loro conciliabilità, senza che questa debba cedere alla subordinazione o alla dissolvenza di una delle parti. Del resto, la provenienza da una sola origine è resa più evidente proprio dal carattere universale dell’arte, così come sottolineato da Aharon. Ci può in questo aiutare Mondrian, uno degli artisti più convintamente propugnatori dell’universalità: «Sebbene l’arte, da un lato, sia l’espressione plastica della nostra emozione estetica, non possiamo dedurne che si riduca all’espressione estetica delle nostre sensazioni soggettive. Logica vuole che l’arte sia l’espressione plastica del non-individuale, che ne è l’opposizione assoluta annullante, quanto l’espressione diretta dell’universale che è in noi, ossia l’esatta manifestazione dell’universale fuori di noi» (Piet Mondrian, Il neoplasticismo, Milano 2008, 13). È stata l’insistenza del carattere espressivo dell’arte che non le ha assicurato il diritto di essere autorevole sul piano noetico, così come il carattere logico–formale della parola, la sua attenzione legittima al particolare, che non sempre le ha garantito ricezione sul piano estetico ed evocativo. Ci vuole perciò un riconoscimento più profondo dello statuto dell’arte in quanto proveniente da una sorgente assoluta da cui origina la stessa parola. Peraltro, la cosa è del tutto palese quando si riflette sull’arte sacra, sull’icona in particolare, in cui l’artista risponde ad una sorta di vincolo, ad una obbligazione. L’opera infatti non è da lui posseduta, ma in qualche modo lo possiede: «Ha ragione Pavel Floorenskij: Andrej (Rublëv) non è libero di “creare”; egli deve realizzare quella visione della Trinità che san Sergio – come recitano le agiografie - aveva avuto fin nel grembo materno e aveva trasmesso ai discepoli» (Massimo cacciari, Tre icone, Milano 2007, 13). Di fronte ad un’opera come quella della Trinità di Rublëv, ci rendiamo conto di quanto l’arte descriva ed evochi in forza di un’ispirazione e di un’obbligazione, mostrando ciò che è universale in noi.
La stessa persuasione che abbiamo così riservato all’arte dovremo garantirla alla Parola. La stessa Chiesa, che avrebbe tutto l’interesse di conservare un’immagine vincolante alla Parola, recita solennemente: «La Parola di Dio precede ed eccede la Bibbia, che pure è “ispirata da Dio” e contiene la parola divina efficace (cf. 2 Tm 3, 16). È per questo che la nostra fede non ha al centro solo un libro, ma una storia di salvezza e, come vedremo, una persona, Gesù Cristo, Parola di Dio fatta carne, uomo, storia. Proprio perché l’orizzonte della parola divina abbraccia e si estende oltre la Scrittura, è necessaria la costante presenza dello Spirito Santo che «guida a tutta la verità» (Gv 16, 13) chi legge la Bibbia» (Messaggio al Popolo di Dio della XII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, 24 ottobre 2008). Dire “Parola di Dio” non significa perciò stesso dire Sacra Scrittura, ma contemplare il “mistero della Sua volontà” Cfr. Dei verbum) che viene alla parola, alla scrittura. Il Papa Benedetto XVI riformula questa considerazione con parole nette e solenni: «In realtà il Verbo di Dio, mediante il quale “tutto è stato fatto” (Gv 1,3) e che si “fece carne” (Gv 1,14), è il medesimo che sta «in principio» (Gv 1,1). Se qui avvertiamo un’allusione all’inizio del libro della Genesi (cfr. Gen 1,1), in realtà siamo posti di fronte ad un principio di carattere assoluto e che ci narra la vita intima di Dio» (Verbum domini, 6). Ritroviamo qui quel principio assoluto che abbiamo invocato per l’arte come sua origine, e che naturalmente sostiene e rende viva ed efficace ogni parola. Parola e immagine perciò riescono, senza fondersi, ad incontrarsi e autorevolmente a comunicare in modo fecondo la forza inesauribile del Mistero santo e universale, in forza di una provenienza assoluta e primigenia, che le ispira costantemente e che è in definitiva lo stesso Mistero.
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