sabato, aprile 13, 2013
Scrivere della tragedia avvenuta il 10 aprile del 1991 nel porto di Livorno di certo non aiuta a trovare le risposte agli innumerevoli misteri che avvolgono il drammatico incidente, ma contribuisce a mantenere viva la memoria delle 140 vittime morte a bordo del traghetto

di Paola Bisconti

Pietro Grasso, presidente del Senato, in occasione del ventiduesimo anniversario della tragedia del Moby Prince ha dichiarato che occorre stabilire una commissione d’inchiesta per le stragi irrisolte per restituire giustizia anche ai parenti delle 140 vittime che la notte del 10 aprile del 1991 rimasero intrappolate nel traghetto in partenza da Livorno e diretto verso Olbia. Alle 22:03 di una sera di primavera, il cielo era terso e intorno al porto tutto appariva di un’eccezionale calma, ma sotto quest’apparente tranquillità si celavano dei misteri che ancora oggi non sono stati svelati. La nave appartenente alla compagnia Nav.Ar.Ma. era lunga più di 130 metri e larga 20, pesava 6187 tonnellate, aveva 4 motori che le consentivano una velocità di 19 nodi, poteva contenere un carico di 1500 passeggeri e 360 veicoli. In seguito alla collisione con la petroliera Agip Abruzzo il Moby Prince divenne una bara galleggiante.

La più grave tragedia che ha colpito la Marina Militare Italiana nel secondo dopoguerra è stata spiegata come risultato di un “errore umano”: una nebbia fittissima, una presunta elevata velocità del traghetto, un mal funzionamento di alcuni apparati di sicurezza a bordo della nave, come l’impianto Sprinkler, il sistema antincendio, o peggio ancora per la mancata prontezza dei passeggeri intenti a seguire la semifinale di Coppa fra la Juventus e il Barcellona. La dinamica dell’incidente, stando alla versione ufficiale, vede il Moby Prince percorrere il cono d’uscita del porto di Livorno e poi colpire con la prua la petroliera, provocando la dispersione di 2700 tonnellate di combustibile che entrando a contatto con le scintille provocate dallo sfregamento delle lamiere delle due navi prende fuoco facendo divampare l’incendio.

Il MayDay fu lanciato alle 22:25 ma lo scafo in fiamme venne individuato solo alle 23:35 e fu soccorso da squadre di aiutanti mal organizzati. Solo due sommozzatori furono più tempestivi e riuscirono a salvare Alessio Bertrand, unico naufrago, che esortava i soccorsi a prestare aiuto alle altre persone rimaste intrappolate all’interno del traghetto. Poco o niente invece fecero gli uomini della capitaneria di porto che giorni dopo dissero che il superstite aveva affermato che i passeggeri erano già tutti morti. In realtà le 140 vite umane agonizzarono per una notte intera all’interno della nave dove il fumo nero e denso provocò loro l’asfissia. Gli esami tossicologici, infatti, accertarono che ogni corpo conteneva il 90% di monossido di carbonio nel sangue.

Sotto un mucchio di corpi fu trovata una telecamera contenente un video amatoriale che riprende gli ultimi momenti prima della collisione. La gran parte dei passeggeri si trovava nel bar a guardare la partita, ma i corpi stranamente furono ritrovati all’interno del salone De Lux. Sono molti i dubbi che ruotano intorno alla vicenda. Uno fra tanti è il fattore nebbia, definita dalle sentenze una delle cause principali dell’incidente; tuttavia alcuni testimoni hanno dichiarato che quella sera non c’era un minimo di foschia. Aspetto confermato inizialmente anche da Renato Superina, comandante dell’Agip Abruzzo, che chiese aiuto via radio gridando “Livorno ci vede”. La nebbia in realtà altro non è che il pretesto impiegato per spiegare la collisione, ma non si può certo pensare che ogni volta che calano banchi di nebbia si possa verificare un incidente. Per evitare questo, infatti, esistono i radar, che quella sera erano stati messi regolarmente in funzione da Ugo Chessa, comandante del Moby Prince, deceduto anche lui durante la tragedia, anche se molti hanno poi dichiarato che il radiolocalizzatore non fosse stato acceso. La sentenza, inoltre, ha imputato all’ufficiale della Marina le colpe dell’incidente definendo le sue manovre imprudenti; al contrario, il comandante Chessa aveva tentato di salvare il suo equipaggio provando a tornare indietro quando, allontanatosi dalla banchina, aveva visto di fronte al Moby Prince l’Agip Abruzzo e l’Agip Napoli, che si trovavano dentro al cono di divieto di ancoraggio.

Stando all’inchiesta condotta da Michele Buono e Piero Riccardi, la sera del 10 aprile nel porto di Livorno c’erano anche quattro navi militari americane usate durante la prima guerra del Golfo, terminata il 27 marzo di quell’anno. I mercantili trasportavano armi ed esplosivi provenienti dalle zone dove si stava svolgendo il conflitto bellico e si stavano ancorando al porto di Livorno perché a Pisa sorge Camp Darby, la più grande base militare americana d’Europa. La testimonianza di Cesare Gentili, comandante della Guardia di Finanza, dimostra che le navi caricassero armi nonostante il regolamento vieta di fare movimentazioni pericolose durante la notte. Un’altra stranezza è la presenza di un peschereccio, una nave frigorifera, che l’Italia aveva messo a disposizione della Somalia per il commercio del pesce, ma la flottiglia denominata “21 Oktober” si trovava spesso nel porto di Livorno, dove teoricamente effettuava delle riparazioni al motore. Allora perché la notte del 10 aprile fa rifornimento di carburante e si allontana in gran fretta? Nel 1994, durante la guerra in Somalia, la giornalista Ilaria Alpi compie un’inchiesta indagando proprio sul peschereccio 21 Oktober: inizia così a scoprire delle verità scomode legate al traffico di armi e dei rifiuti tossici, motivo per cui venne uccisa il 20 marzo del 1994 a Mogadiscio insieme al suo operatore Miran Hrovatin.

Tuttora non si conoscono alcuni particolari indispensabili per la risoluzione del giallo: non risulta veritiera la posizione e l’orientamento della prua dell’Agip Abruzzo e non è stato mai ritrovato il giornale di bordo della petroliera. Un capitolo dolente in questa brutta tragedia, inoltre, è riservato ai soccorsi: mentre il Moby Prince brucia e le persone a bordo stanno per morire, nessuno segue le manovre di soccorso e non arrivano ordini, anzi dalla stazione radio si sente addirittura qualcuno che fischietta e poi pronuncia in dialetto pugliese una frase che esprime non solo l’indifferenza più totale di fronte ad una immane tragedia, ma forse addirittura una premeditazione...

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