«Nessun bengalese con un minimo di educazione avanzerebbe rivendicazioni del genere. Solo un estremista formato in una madrasa». È la reazione dell’arcivescovo di Dhaka, monsignor Patrick D’Rozario alle proteste del 5 maggio scorso nella capitale del Bangladesh.
Circa 500mila persone sono scese in piazza per chiedere l’approvazione di una sorta di legge anti-blasfemia che prevede la pena di morte per chi insulta Allah, il profeta Maometto o l’Islam e sancisce la separazione tra uomini e donne nei luoghi pubblici. Tra i tredici punti della “proposta di legge” anche l’obbligatorietà dell’educazione islamica e la fine delle attività anti-islamiche - «mascherate da conversioni religiose» - messe in atto dalle diverse ONG e dai missionari cristiani a Chittagong. «Tutte richieste assolutamente incostituzionali, avanzate da gruppi fondamentalisti», commenta il presule secondo il quale all’origine delle proteste vi sarebbe «una lotta interna tra le diverse fazioni islamiste per la conquista del potere». I manifestanti, sostenitori del partito islamico Hefajat-e-Islam ["Protettore dell'islam"], si sono scontrati violentemente contro gli agenti della polizia brandendo machete e lanciando sassi e mattoni. Il bilancio è di oltre venti morti e più di un centinaio di feriti. «Sicuramente il Bangladesh Nationalist Party (PNP), il principale partito dell’opposizione, ha sostenuto la protesta nel tentativo di rovesciare il governo», dichiara l’arcivescovo. Già il 6 aprile scorso esponenti e simpatizzanti del Hefajat-e-Islam avevano imposto al primo ministro Sheick Hasina un ultimatum di tre settimane per accettare le loro tredici condizioni. In caso contrario la data prevista per quello che gli stessi estremisti hanno definito «l’assedio di Dhaka» era proprio il 5 maggio.
La premier non ha ceduto alle pressioni, ribadendo il diritto di ogni cittadino a praticare liberamente la propria religione. Sebbene la comunità cristiana non sia stata direttamente colpita, la violenza estremista ha accresciuto la preoccupazione della comunità. In una dichiarazione congiunta le Chiese cristiane hanno indetto il prossimo primo giugno una giornata di preghiera, digiuno e penitenza. «Invitiamo tutti i bengalesi responsabili a prendersi cura dei poveri – afferma l’arcivescovo - È l’unico modo per cambiare la società a beneficio di tutti». Il presule è inoltre convinto che le agitazioni derivino dall’assenza di un’agenda politica centrata sui cittadini e soprattutto sui poveri. Monsignor D’Rozario invita a considerare le conseguenze della massiccia presenza straniera nell’industria tessile. Investimenti che rappresentano una «luce di speranza» per il Paese, ma che comportano altresì ingiustizie e sofferenza, come nel caso dell’incidente del Rana Plaza a Savar nell’estrema periferia di Dhaka.
L’edificio di otto piani, crollato lo scorso 24 aprile, ospitava delle fabbriche tessili che confezionavano vestiti anche per aziende occidentali. «Una tragedia che ha scioccato la nazione e addolorato tutti e che oggi impone a investitori, politici, governi e leader sociali e religiosi di prendere immediatamente dei provvedimenti».
Circa 500mila persone sono scese in piazza per chiedere l’approvazione di una sorta di legge anti-blasfemia che prevede la pena di morte per chi insulta Allah, il profeta Maometto o l’Islam e sancisce la separazione tra uomini e donne nei luoghi pubblici. Tra i tredici punti della “proposta di legge” anche l’obbligatorietà dell’educazione islamica e la fine delle attività anti-islamiche - «mascherate da conversioni religiose» - messe in atto dalle diverse ONG e dai missionari cristiani a Chittagong. «Tutte richieste assolutamente incostituzionali, avanzate da gruppi fondamentalisti», commenta il presule secondo il quale all’origine delle proteste vi sarebbe «una lotta interna tra le diverse fazioni islamiste per la conquista del potere». I manifestanti, sostenitori del partito islamico Hefajat-e-Islam ["Protettore dell'islam"], si sono scontrati violentemente contro gli agenti della polizia brandendo machete e lanciando sassi e mattoni. Il bilancio è di oltre venti morti e più di un centinaio di feriti. «Sicuramente il Bangladesh Nationalist Party (PNP), il principale partito dell’opposizione, ha sostenuto la protesta nel tentativo di rovesciare il governo», dichiara l’arcivescovo. Già il 6 aprile scorso esponenti e simpatizzanti del Hefajat-e-Islam avevano imposto al primo ministro Sheick Hasina un ultimatum di tre settimane per accettare le loro tredici condizioni. In caso contrario la data prevista per quello che gli stessi estremisti hanno definito «l’assedio di Dhaka» era proprio il 5 maggio.
La premier non ha ceduto alle pressioni, ribadendo il diritto di ogni cittadino a praticare liberamente la propria religione. Sebbene la comunità cristiana non sia stata direttamente colpita, la violenza estremista ha accresciuto la preoccupazione della comunità. In una dichiarazione congiunta le Chiese cristiane hanno indetto il prossimo primo giugno una giornata di preghiera, digiuno e penitenza. «Invitiamo tutti i bengalesi responsabili a prendersi cura dei poveri – afferma l’arcivescovo - È l’unico modo per cambiare la società a beneficio di tutti». Il presule è inoltre convinto che le agitazioni derivino dall’assenza di un’agenda politica centrata sui cittadini e soprattutto sui poveri. Monsignor D’Rozario invita a considerare le conseguenze della massiccia presenza straniera nell’industria tessile. Investimenti che rappresentano una «luce di speranza» per il Paese, ma che comportano altresì ingiustizie e sofferenza, come nel caso dell’incidente del Rana Plaza a Savar nell’estrema periferia di Dhaka.
L’edificio di otto piani, crollato lo scorso 24 aprile, ospitava delle fabbriche tessili che confezionavano vestiti anche per aziende occidentali. «Una tragedia che ha scioccato la nazione e addolorato tutti e che oggi impone a investitori, politici, governi e leader sociali e religiosi di prendere immediatamente dei provvedimenti».
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