giovedì, maggio 23, 2013
Il Comitato promotore invita i cittadini bolognesi, nel referendum del 26 maggio, a dire basta ai finanziamenti pubblici in favore delle scuole private. Tra rigurgiti mai sopiti di laicismo e di statalismo, ancora una volta la scuola paritaria cattolica torna nel banco degli imputati...

di Bartolo Salone

Su iniziativa del “Nuovo Comitato Articolo 33”, è stato indetto a Bologna per il 26 maggio un referendum consultivo con cui si chiede ai cittadini di esprimere il loro parere sul mantenimento o sull’abolizione del finanziamento comunale in favore delle scuole dell’infanzia paritarie a gestione privata (finanziamento che attualmente ammonta a circa 1 milione di euro l’anno). E’ vero che il referendum è solo consultivo e quindi idoneo ad orientare, ma senza vincolare, le istituzioni comunali nella scelta sulla destinazione dei finanziamenti pubblici; però è anche vero che tramite il proposto quesito il comitato promotore (non a caso sostenuto da ampi settori dei sindacati e della politica, soprattutto riconducibili all’ala della sinistra radicale) intende mettere in discussione un modello di istruzione pubblica che negli ultimi vent’anni a Bologna (come nel resto dell’Emilia) ha dato degli ottimi risultati, consentendo di assorbire quasi interamente la domanda educativa proveniente dalle famiglie, nel rispetto del pluralismo del sistema scolastico e del principio costituzionale di sussidiarietà.

Il sistema bolognese della scuola dell’infanzia risulta infatti così strutturato: su oltre 8000 bambini, 1736 frequentano le scuole paritarie private, 1500 trovano posto nelle scuole dell’infanzia statali e i rimanenti (circa 5000) nelle scuole paritarie comunali. Come giustamente osserva, sul fronte del “no” al referendum, il Comitato “+scuolextutti” (vedi il sito www.referendumbologna.it), le 27 scuole private paritarie che operano in regime di convenzionamento, pur accogliendo il 21% dei bambini bolognesi, ricevono appena il 2,8% delle risorse che il Comune investe sulla scuola dell’infanzia (anche se al milione di euro che ricevono dal Comune è da aggiungere un altro milione di euro circa proveniente dalle risorse statali e regionali). Eppure, per i promotori del referendum del 26 maggio questo milione di euro è addirittura troppo, potendo essere più proficuamente impiegato per risolvere i problemi delle scuole dell’infanzia statali e comunali, specialmente in un periodo di crisi come quello che sta attraversando adesso il nostro Paese. Come se la crisi non colpisse egualmente gli istituti paritari privati e le famiglie che vi iscrivono i loro figli!

Ad ogni modo, per i sostenitori del referendum il modello bolognese, fondato sul pluralismo scolastico e su una concezione sussidiaria tra pubblico e privato nella gestione del servizio educativo, sarebbe paradigmatico del fallimento della politica dei finanziamenti pubblici alle scuole paritarie private, che andrebbe rivista anche sul piano nazionale. Quali sono, secondo i promotori, le ragioni del fallimento di un modello che al contrario pare assicurare allo Stato e agli enti pubblici territoriali notevoli risparmi di spesa (basti pensare che, se il Comune di Bologna dovesse farsi carico direttamente con le proprie strutture dei bambini attualmente frequentanti le scuole private convenzionate spenderebbe all’incirca 10 volte di più, ossia, per ogni bambino, qualcosa come 6900 euro all’anno a fronte dei 600 che eroga invece attualmente sotto forma di finanziamenti alle scuole private)? Ebbene, il fallimento di questo modello scolastico, per Comitato Articolo 33 (referendum.articolo33.org per ulteriori approfondimenti), sarebbe dimostrato dal fatto che a giugno dell’anno scorso mentre nelle scuole private di Bologna rimanevano 140 posti liberi, ben 423 bambini che avevano chiesto l’iscrizione alla scuola comunale rimanevano senza posto. In realtà, il Comune, a fronte della richiesta, si attrezzava aumentando il numero degli alunni per classe e aprendo nuove sezioni, sicché il numero di bambini esclusi dalla scuola dell’infanzia comunale non è stato di 423, ma alla fine di soli 103. Si tratta senz’altro di una disfunzione del sistema che va sicuramente corretta, ma non tale da far dubitare della bontà del modello sussidiario in sé considerato. Né la soluzione suggerita dal Comitato referendario, ossia distogliere l’intero finanziamento comunale dalle scuole paritarie a gestione privata per destinarlo alle scuole dell’infanzia statali e comunali, è esente da problematicità: l’effetto paventato di una simile decisione sarebbe non già la chiusura, ma più realisticamente l’abbandono da parte di numerosi iscritti (che il Comitato “+scuolaxtutti” stima nella misura di 400 bambini) delle scuole private non più convenzionate per infoltire ulteriormente le liste d’attesa delle scuole comunali e statali. Queste ultime, a loro volta, con il milione di euro prima destinato alle scuole private paritarie, riuscirebbero ad assicurare soltanto 145 nuovi posti nelle loro strutture (visto che il costo per bambino sostenuto dalle statali e dalle comunali è, lo ripetiamo, di circa 6900 euro e il conto è subito fatto). Il problema sarebbe dunque non già risolto, ma addirittura aggravato!

Che le ragioni reali dell’opposizione ai finanziamenti pubblici alle scuole private paritarie siano di carattere soprattutto ideologico (essendo legate ad una vecchia concezione monolitica e stato-centrica del sistema scuola, superata tanto dagli sviluppi del costituzionalismo quanto dalla legislazione ordinaria) è dimostrato tuttavia dall’insistenza con cui il Comitato promotore afferma nei suoi volantini sul fatto che le sole scuole statali e comunali sarebbero realmente “pubbliche”, in quanto aperte a tutte, dimenticando che la legge 62/2000, in perfetta sintonia con i principi costituzionali, considera come parte del sistema nazionale di istruzione anche le scuole private che hanno ottenuto la parità. Per non parlare dei soliti pregiudizi, tralaticiamente ripetuti, per i quali le sole scuole a gestione statale o comunale sarebbero veramente aperte ed inclusive, mentre quelle a gestione privata, per lo più cattoliche, sarebbero per tale motivo confessionali, chiuse ed elitarie. Impressiona la disinvoltura di certi confronti e giudizi quasi sarcastici che non colgono affatto la realtà dei fatti: ad esempio, sul sito del Nuovo Comitato Articolo 33 si rileva polemicamente, a dimostrazione di quanto poco aperte siano in realtà le scuole cattoliche nei confronti delle minoranze o di chi sia in difficoltà, che gli alunni stranieri che trovano posto negli istituti privati del capoluogo emiliano sono soltanto 80 contro i 1595 delle scuole “pubbliche”, mentre i disabili sono soltanto 6 contro i 145 ospitati dalle scuole statali e comunali. La causa di ciò viene pregiudizialmente addebitata all’ontologico esclusivismo delle scuole cattoliche, facendo finta di dimenticare che le scuole paritarie cattoliche non godono certo dei consistenti mezzi finanziari di cui dispongono le scuole statali e comunali, dovendo finanziarsi quasi interamente con le rette pagate dalle famiglie e facendo perciò fatica ad assicurare i servizi in favore delle fasce più deboli. Per non parlare del fatto che la politica di ridimensionamento o, nelle intenzioni dei promotori del referendum, addirittura di azzeramento dei finanziamenti pubblici in favore delle scuole private paritarie si muove nella direzione opposta, vale a dire di accrescere ulteriormente, e non già di risolvere, la lamentata forbice sociale, rendendo ancor più arduo alle scuole paritarie private il compito di ampliare il proprio bacino di utenza a vantaggio dei meno abbienti.

Ma pure l’immagine della scuola dell’infanzia cattolica come una scuola per ricchi si rivela in sé falsa e strumentale, quantomeno con riferimento al contesto bolognese. Comitato Articolo 33 scrive infatti sul suo sito che le scuole paritarie private (a Bologna ve ne sono 27, di cui 25 di ispirazione cattolica), lungi dall’offrire un servizio “pubblico”, quindi aperto a tutti, offrono un servizio solo a chi può pagare una retta che va da 200 a 1000 euro al mese. Cosa che non corrisponde affatto al vero, poiché, come precisa puntualmente Roberto Gontero, presidente A.Ge.S.C. (Associazione Genitori Scuole Cattoliche) in un articolo pubblicato su “Italia Oggi” il 14 maggio 2013, delle 27 scuole paritarie dell’infanzia bolognesi il 19% applica una retta mensile di 125 euro, il 33% di 166 euro, un altro 33% di 208 euro e il rimanente 15% di 250 euro. Siamo dunque ben lontani dalle favolose rette di 1000 euro mensili immaginate da Comitato Articolo 33!

Infine, tra le tante inesattezze propagate in argomento, ironico suona il paternalistico ammonimento contenuto nel volantino elettorale di Comitato Articolo 33 sotto la voce “necessità sociale”: ivi leggiamo testualmente che “dopo tanti anni di sacrifici imposti alla scuola pubblica, durante i quali i fondi delle scuole paritarie private sono stati regolarmente riconfermati (quando non aumentati), è giunto il momento che anche le scuole paritarie private facciano la loro parte”. In realtà, negli ultimi anni, come risulta dall’analisi dei dati Miur (vedi l’approfondito dossier curato dall’Agesc) i finanziamenti alle scuole private paritarie sono in progressiva flessione e non in aumento. Le scuole paritarie stanno quindi già facendo la loro parte, dovendosi per di più barcamenare tra le strettoie della diffidenza e del pregiudizio ideologico di chi non riesce a rassegnarsi ad una visione pluralistica e sussidiaria della scuola, come dalla nostra Costituzione ci viene consegnata.

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