lunedì, maggio 27, 2013
Sul Corriere della Sera, la lettera di una trentenne emigrata dalla Calabria sposta l’accento, senza alcun fondamento, dal terribile fenomeno della violenza sulle donne a un problema regionale

di Nadia Velardo

Ti svegli e spalanchi la finestra, come ogni mattina. Ti godi l’aria ancora tersa. Senti il sole sulla pelle e pensi di essere contenta di essere rimasta qui. In una terra che, sì, ha molti problemi ma ha anche tanti lati positivi. In una regione che ami perché è il luogo in cui sei nato. In una regione che, credi fermamente, ha bisogno di persone che non scelgano la via più facile dell’andare altrove. Scappare non è mai una soluzione. Sorridi. Scappare da cosa, in fondo?Se il bene e il male esistono in tutto il mondo. Se il lavoro è difficile da trovare o mantenere ovunque in questo periodo di crisi. Dopo un po’, come ogni mattina, apri un’altra finestra. Quella sul mondo, attraverso il web. E scopri che restare, a volte, può provocare una sensazione più estraniante dell’andare.

Il Corriere della Sera pubblica la lettera di una trentenne scappata via da una Calabria che non riconosco. L’autrice prende spunto dall’orribile fatto di cronaca di Fabiana, la ragazzina accoltellata e arsa viva dal fidanzato. Un fatto agghiacciante, reso ancora più tremendo dalla giovane età di vittima e carnefice. Ma cosa c’entra la collocazione geografica? Fai passare la rabbia e rileggi, perché l’impeto di difendere la tua terra a priori potrebbe trarre in inganno. Ma ancora di più ti poni interrogativi e ancora di più non puoi accettare ciò che stai leggendo. Perché non si tratta solo di denigrare o difendere una Regione. Si sta spostando l’accento da quella che sta diventando una piaga sociale – o che purtroppo già lo è – ad una questione di “calabresità”. L’accento invece va posto sul femminicidio, che non conosce latitudine. L’accento va posto su una società malata, una società che sta perdendo ogni valore. Su uomini che non tollerano di sentirsi dire no, su uomini – o meglio maschi – capaci solo di violentare fisicamente o psicologicamente. Uomini che non sono solo calabresi, perché purtroppo, prima della povera Fabiana, è già successo. E sta succedendo ovunque. Vieni da chiedersi dove fosse nei giorni e nei mesi scorsi chi ha sentito il bisogno di tessere una scorticata iperbole di luoghi comuni sulla sua terra. Dov’è l’attinenza tra l’assassinio di una giovane di sedici anni e il fatto che è nata in Calabria?

Della mia terra condanno a gran voce la ‘ndrangheta. Posso contestare, senza far di tutta l’erba un fascio, il pessimismo, la paura che fa pagare il pizzo, piegare la testa, invece di denunciare. Ma mi sembra di ricordare che in una civile Milano, mentre un pazzo armato di piccone colpiva chi gli capitava a tiro, nessuno ha visto niente e sono passate ore prima che qualcuno si decidesse a chiamare le forze dell’ordine.
Della mia terra non posso non vedere i lati negativi, ma non posso vedere nemmeno una Calabria che sembra tratta da un racconto ottocentesco. E che non esiste. O se esiste in piccole realtà che chi scrive non conosce, è però così poco diffusa da non poter di certo legittimare la pubblicazione, da parte di un giornale autorevole, di parole che non raccontano l’esperienza vissuta da una singola persona ma che affermano con convinzione che in Calabria “tutte le donne” sono sottomesse e infelici.

Forse dovrei dimostrare solidarietà alla mia coetanea che ha parlato così della nostra Regione. Perché deve aver avuto davvero brutte esperienze. Mi spiace per lei, perché pur vivendo in Calabria non conosco nessuna donna che ha fatto voto a san Francesco per avere figli maschi. Nessuno mi ha mai detto: “Stai zitta tu, che sei femmina!”, anzi mi sono sentita sempre incoraggiata ad esprimere la mia opinione.

Sì, è vero, mi sento chiamata in causa da calabrese. Ma lo scritto mi indigna semplicemente in quanto donna. Perché si rischia di far pensare che un assassinio possa avere un’etichetta geografica, che basti percorrere la Salerno-Reggio Calabria in direzione nord per essere salve e non rischiare di avere a che fare con uomini che non sanno amare, che non sanno far altro che essere lunatici, possessivi, aggressivi, violenti.

La sociologa tedesca Renate Siebert, allieva di Theodor W. Adorno, docente presso l’Università della Calabria (il campus più grande d’Italia, con circa quarantamila studenti che credono nelle possibilità della propria terra), ha dichiarato: «Una storia come questa potrebbe essere accaduta in qualsiasi altro posto d’Italia. Trovo assolutamente aberrante che si possa parlare, in questa vicenda, di specificità calabrese. Per come conosco la Calabria devo dedurre che chi sostiene queste tesi sia sostanzialmente razzista».

La mia regione è spesso sovraesposta o sottoesposta. Per guardarla bisogna regolare l’obbiettivo, capire quando c’è un eccesso di luce o, viceversa, quando tutto appare buio. Ma la violenza sulle donne (e insisto nel sottolineare che quella psicologica non è da meno di quella fisica) non è purtroppo un fatto calabrese. E dico purtroppo, perché se lo fosse almeno il problema sarebbe circoscrivibile. Ma non lo è. La violenza sulle donne sembra stia diventando, ad ogni latitudine, un osceno fenomeno in crescita. Forse bisogna interrogarsi su cosa siano diventati gli esseri umani. Sul perché la ragione si stia assopendo, generando mostri. Sul perché preferiamo puntare il dito sul rassicurante mostro del luogo comune, pur di non renderci conto che probabilmente c’è un’intera società malata. Perché oggi c’è una nuova misoginia legittimata dalla televisione, dalla pubblicità che esibisce la donna-oggetto. Perché oggi c’è un vuoto lasciato da coscienze non usate.

È presente 1 commento

Anonimo ha detto...

da donna calabrese sono pienamente d'accordo con te...essere vittima e succube fisicamente e pscologicamente di uomini malati di possessività e perversioni varie lo si è tanto in calabria quanto in qualsiasi altro posto del mappamondo...l anima di voi giornalisti dovrebbe essere la penna con cui scrivete,mi congratulo con te e con la tua onestà di penna...purtropp spesso essere figli di calabria significa essere "menomati" e questo per una cronaca che mette in rilievo solo il buio di una regione che splende anche di sole,mare,bellezze architettoniche e gente onesta e molto ospitale

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