Il mondo in allarme per l’inasprirsi del conflitto siriano, dopo i raid
notturni israeliani contro obiettivi militari di Damasco.
Radio Vaticana - Stamani risposta di Damasco sul territorio israeliano nel Golan. Nazioni Unite, Unione Europea e Nato in allerta, mentre si attende il colloquio oggi a Mosca tra il segretario di Stato Usa Kerry e il presidente russo Putin, che ieri ha espresso la sua preoccupazione al premier Netanyahu. Intanto la Croce Rossa Internazionale denuncia che l’intensità dei combattimenti impedisce lo sgombero dei morti e il soccorso dei feriti. Il servizio di Marina Calculli: ascolta.
Sono 42 i soldati siriani uccisi dal raid israeliano di ieri notte che si è abbattuto alle porte di Damasco sull’osservatorio di Jamraya. Il regime di Asad promette che “risponderà, ma non adesso”. Per il timore di rappresaglie Tel Aviv ha già dispiegato batterie di missili alla frontiera nord e rafforzato il controllo delle ambasciate. Anche ad Haifa si teme che Hezbollah dal Libano possa rispondere all’aggressione dell’alleato siriano. Abu Mazen, il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, vola intanto in Cina. E in Cina arriverà oggi anche Benjamin Netanyau ma in visita separata. Il suo arrivo a Shangai è stata preceduto da critiche implicite. Ieri il portavoce del Ministero degli Esteri di Pechino ha detto: '”Siamo contrari all'uso della forza e crediamo che la sovranità di ogni paese debba essere rispettata”. Intanto dopo le dichiarazioni di Carla del Ponte sulle prove ancora da verificare dell’uso di gas nervino da parte dei ribelli, la Commissione Onu riprende freddamente l’ex procuratrice e dichiara: “non abbiamo prove certe né da una parte né dall’altra”.
Sui rischi di regionalizzazione del conflitto siriano, Salvatore Sabatino ha raccolto l’analisi di Alberto Ventura, docente di Storia dei Paesi islamici presso l’Università della Calabria: ascolta
R. - In un certo senso il conflitto era già regionale, magari non in maniera così concreta come appare adesso, ma era chiaro che la situazione in Siria stava scatenando tutta una serie di controreazioni a livello regionale - ma direi anche addirittura a livello internazionale - che la ponevano sempre ai limiti di un allargamento del conflitto. Quindi, credo che questa sia semplicemente la logica conseguenza di una situazione gestita malissimo a livello internazionale e che sta portando naturalmente ad un allargamento di questo conflitto.
D. – I Paesi arabi insorgono contro Israele, mentre i ribelli siriani sottolineano che non vogliono essere associati al regime. Questo vuol dire che appoggiano sostanzialmente le incursioni aeree dello Stato ebraico?
R. – Direi che la consequenzialità di queste affermazioni non è assolutamente certa: non appoggiare il regime non vuol dire per questo approvare naturalmente l’operato di Israele dal punto di vista militare. Quanto ai regimi arabi, dimostrano per l’ennesima volta il loro fallimento: ormai credo che tutte le dimostrazioni di impotenza della Lega Araba - nei mesi e nell’anno trascorso – stiano semplicemente a sottolineare come ormai i sogni di un arabismo, di un mondo arabo più o meno compatto, sia definitivamente tramontato e siano altri gli attori che ora cercano un ruolo primario nella regione.
D. – Quali sono questi attori?
R. – Direi soprattutto Turchia ed Iran, a livello regionale: Iran associato in questo momento al governo siriano, e la Turchia che invece dimostra da qualche tempo una certa ostilità nei confronti di quel regime. Sono due Paesi che, per motivi diversi, sono stati esclusi da un ruolo di potenze regionali - del quale ora cercano di riappropriarsi in tutti i modi possibili - e, visto il vuoto di potere - in un certo senso - che c’è tra gli arabi, nella Lega Araba, e le indecisioni, le continue lentezze del diritto internazionale e della politica estera internazionale, ci stanno riuscendo.
D. – Non a caso sono due Paesi non arabi…
R. – Esattamente, sono due Paesi non arabi. Torna ad essere presente nella regione un’idea più transnazionale islamica che araba, dove elementi non arabi – che nella storia islamica del passato hanno a lungo dominato tutto il mondo islamico – pretendono in qualche modo di tornare ad essere al centro dell’attenzione e finirla con questo equivoco dell’arabismo che da solo non può certo rappresentare l’intero interesse del mondo islamico.
D. – Da sottolineare però che la presidenza egiziana ha condannato l’attacco israeliano parlando di “aggressione”. Come Paese chiave negli equilibri della regione - il Paese certamente più grande - non crede che questa presa di posizione possa modificare le alleanze e gli stessi equilibri dell’area?
R. – Certamente l’attacco israeliano pone dei problemi in questo momento. L’Egitto non può – visto il carattere di mediatore moderato che ha cercato di darsi in questi ultimi tempi – ignorare l’attacco israeliano e deve barcamenarsi fra due posizioni possibili: la condanna dell’attacco che è inevitabile per non perdere la faccia di fronte agli altri interlocutori della regione ed al tempo stesso appunto questo ruolo, questo tentativo di apparire come un mediatore credibile.
D. – Il Libano, che paga un prezzo altissimo nella crisi siriana, che ruolo può giocare in questo momento?
R. – Un ruolo importate perché, non dimentichiamoci che abbiamo parlato di interregionalità, di internazionalità del conflitto, ma si tratta anche di un conflitto in cui l’elemento interconfessionale ha un’importanza notevolissima: il Libano ha delle milizie sciite che ben conosciamo e la spaccatura del mondo tra sunniti e sciiti – che è stata gestita bene o male nei decenni passati in maniera più morbida dai vari governi – ora sta riesplodendo in questa crisi di identità. Quindi, gli schieramenti oggi si fanno su quella base. Non è un caso che l’Iran cerchi di fare un’asse di alleanza con gli sciiti di Siria, gli alawiti - che sono, ricordiamo, sempre di derivazione sciita - e che i sunniti rispondano con una sorta di identità etnico-nazionale. Il conflitto che non ha assolutamente ragioni religiose in senso stretto, rischia di trasformarsi in un conflitto interconfessionale. Quindi, il Libano per la sua collocazione sciita - per la collocazione sciita degli Hezbollah – naturalmente sta diventando un fattore determinante e gli attacchi israeliani lo dimostrano, perché almeno la giustificazione ufficiale era che volevano colpire armi destinate al Libano provenienti dall’Iran.
D. – Capitolo a parte poi quello delle armi chimiche utilizzate contro i civili in Siria, di cui si parla da tempo. Carla del Ponte, membro della Commissione d’inchiesta dell’Onu sulle violazioni dei diritti umani in Siria, ha sottolineato che sarebbero state utilizzate dai ribelli e non dal regime…
R. – Era da tempo che si parlava di questa possibilità: il ministro degli esteri iraniano Ali Akbar Salehi, per esempio, negli ultimissimi giorni aveva più volte denunciato che le armi chimiche venivano utilizzate – il “sarin” in particolare, un gas nervino piuttosto letale – dai ribelli e non dal governo. Naturalmente, essendo colui che aveva pronunciato questa diagnosi un iraniano non era stato molto considerato; però dei dubbi nella comunità internazionale persistevano e lo stesso atteggiamento delle potenze d’Occidente, dell’America, dell’Europa lo sta a testimoniare. C’è stata una certa prudenza, a proposito di questa famosa “linea rossa” - quella delle armi chimiche - che non andrebbe superata, pena un intervento internazionale. Perfino il governo americano, ma pensiamo in particolare qui in Europa al governo francese, hanno manifestato molta prudenza in questo senso perché le indagini sono naturalmente da farsi sul terreno, c’è tutta una serie di precauzioni da prendere prima di poter emettere dei giudizi definitivi.
Radio Vaticana - Stamani risposta di Damasco sul territorio israeliano nel Golan. Nazioni Unite, Unione Europea e Nato in allerta, mentre si attende il colloquio oggi a Mosca tra il segretario di Stato Usa Kerry e il presidente russo Putin, che ieri ha espresso la sua preoccupazione al premier Netanyahu. Intanto la Croce Rossa Internazionale denuncia che l’intensità dei combattimenti impedisce lo sgombero dei morti e il soccorso dei feriti. Il servizio di Marina Calculli: ascolta.
Sono 42 i soldati siriani uccisi dal raid israeliano di ieri notte che si è abbattuto alle porte di Damasco sull’osservatorio di Jamraya. Il regime di Asad promette che “risponderà, ma non adesso”. Per il timore di rappresaglie Tel Aviv ha già dispiegato batterie di missili alla frontiera nord e rafforzato il controllo delle ambasciate. Anche ad Haifa si teme che Hezbollah dal Libano possa rispondere all’aggressione dell’alleato siriano. Abu Mazen, il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, vola intanto in Cina. E in Cina arriverà oggi anche Benjamin Netanyau ma in visita separata. Il suo arrivo a Shangai è stata preceduto da critiche implicite. Ieri il portavoce del Ministero degli Esteri di Pechino ha detto: '”Siamo contrari all'uso della forza e crediamo che la sovranità di ogni paese debba essere rispettata”. Intanto dopo le dichiarazioni di Carla del Ponte sulle prove ancora da verificare dell’uso di gas nervino da parte dei ribelli, la Commissione Onu riprende freddamente l’ex procuratrice e dichiara: “non abbiamo prove certe né da una parte né dall’altra”.
Sui rischi di regionalizzazione del conflitto siriano, Salvatore Sabatino ha raccolto l’analisi di Alberto Ventura, docente di Storia dei Paesi islamici presso l’Università della Calabria: ascolta
R. - In un certo senso il conflitto era già regionale, magari non in maniera così concreta come appare adesso, ma era chiaro che la situazione in Siria stava scatenando tutta una serie di controreazioni a livello regionale - ma direi anche addirittura a livello internazionale - che la ponevano sempre ai limiti di un allargamento del conflitto. Quindi, credo che questa sia semplicemente la logica conseguenza di una situazione gestita malissimo a livello internazionale e che sta portando naturalmente ad un allargamento di questo conflitto.
D. – I Paesi arabi insorgono contro Israele, mentre i ribelli siriani sottolineano che non vogliono essere associati al regime. Questo vuol dire che appoggiano sostanzialmente le incursioni aeree dello Stato ebraico?
R. – Direi che la consequenzialità di queste affermazioni non è assolutamente certa: non appoggiare il regime non vuol dire per questo approvare naturalmente l’operato di Israele dal punto di vista militare. Quanto ai regimi arabi, dimostrano per l’ennesima volta il loro fallimento: ormai credo che tutte le dimostrazioni di impotenza della Lega Araba - nei mesi e nell’anno trascorso – stiano semplicemente a sottolineare come ormai i sogni di un arabismo, di un mondo arabo più o meno compatto, sia definitivamente tramontato e siano altri gli attori che ora cercano un ruolo primario nella regione.
D. – Quali sono questi attori?
R. – Direi soprattutto Turchia ed Iran, a livello regionale: Iran associato in questo momento al governo siriano, e la Turchia che invece dimostra da qualche tempo una certa ostilità nei confronti di quel regime. Sono due Paesi che, per motivi diversi, sono stati esclusi da un ruolo di potenze regionali - del quale ora cercano di riappropriarsi in tutti i modi possibili - e, visto il vuoto di potere - in un certo senso - che c’è tra gli arabi, nella Lega Araba, e le indecisioni, le continue lentezze del diritto internazionale e della politica estera internazionale, ci stanno riuscendo.
D. – Non a caso sono due Paesi non arabi…
R. – Esattamente, sono due Paesi non arabi. Torna ad essere presente nella regione un’idea più transnazionale islamica che araba, dove elementi non arabi – che nella storia islamica del passato hanno a lungo dominato tutto il mondo islamico – pretendono in qualche modo di tornare ad essere al centro dell’attenzione e finirla con questo equivoco dell’arabismo che da solo non può certo rappresentare l’intero interesse del mondo islamico.
D. – Da sottolineare però che la presidenza egiziana ha condannato l’attacco israeliano parlando di “aggressione”. Come Paese chiave negli equilibri della regione - il Paese certamente più grande - non crede che questa presa di posizione possa modificare le alleanze e gli stessi equilibri dell’area?
R. – Certamente l’attacco israeliano pone dei problemi in questo momento. L’Egitto non può – visto il carattere di mediatore moderato che ha cercato di darsi in questi ultimi tempi – ignorare l’attacco israeliano e deve barcamenarsi fra due posizioni possibili: la condanna dell’attacco che è inevitabile per non perdere la faccia di fronte agli altri interlocutori della regione ed al tempo stesso appunto questo ruolo, questo tentativo di apparire come un mediatore credibile.
D. – Il Libano, che paga un prezzo altissimo nella crisi siriana, che ruolo può giocare in questo momento?
R. – Un ruolo importate perché, non dimentichiamoci che abbiamo parlato di interregionalità, di internazionalità del conflitto, ma si tratta anche di un conflitto in cui l’elemento interconfessionale ha un’importanza notevolissima: il Libano ha delle milizie sciite che ben conosciamo e la spaccatura del mondo tra sunniti e sciiti – che è stata gestita bene o male nei decenni passati in maniera più morbida dai vari governi – ora sta riesplodendo in questa crisi di identità. Quindi, gli schieramenti oggi si fanno su quella base. Non è un caso che l’Iran cerchi di fare un’asse di alleanza con gli sciiti di Siria, gli alawiti - che sono, ricordiamo, sempre di derivazione sciita - e che i sunniti rispondano con una sorta di identità etnico-nazionale. Il conflitto che non ha assolutamente ragioni religiose in senso stretto, rischia di trasformarsi in un conflitto interconfessionale. Quindi, il Libano per la sua collocazione sciita - per la collocazione sciita degli Hezbollah – naturalmente sta diventando un fattore determinante e gli attacchi israeliani lo dimostrano, perché almeno la giustificazione ufficiale era che volevano colpire armi destinate al Libano provenienti dall’Iran.
D. – Capitolo a parte poi quello delle armi chimiche utilizzate contro i civili in Siria, di cui si parla da tempo. Carla del Ponte, membro della Commissione d’inchiesta dell’Onu sulle violazioni dei diritti umani in Siria, ha sottolineato che sarebbero state utilizzate dai ribelli e non dal regime…
R. – Era da tempo che si parlava di questa possibilità: il ministro degli esteri iraniano Ali Akbar Salehi, per esempio, negli ultimissimi giorni aveva più volte denunciato che le armi chimiche venivano utilizzate – il “sarin” in particolare, un gas nervino piuttosto letale – dai ribelli e non dal governo. Naturalmente, essendo colui che aveva pronunciato questa diagnosi un iraniano non era stato molto considerato; però dei dubbi nella comunità internazionale persistevano e lo stesso atteggiamento delle potenze d’Occidente, dell’America, dell’Europa lo sta a testimoniare. C’è stata una certa prudenza, a proposito di questa famosa “linea rossa” - quella delle armi chimiche - che non andrebbe superata, pena un intervento internazionale. Perfino il governo americano, ma pensiamo in particolare qui in Europa al governo francese, hanno manifestato molta prudenza in questo senso perché le indagini sono naturalmente da farsi sul terreno, c’è tutta una serie di precauzioni da prendere prima di poter emettere dei giudizi definitivi.
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