Poco conosciuta e sovente travisata, anche presso la comunità ecclesiale, la reale posizione della Chiesa cattolica circa la pena di morte. In particolare, ci si domanda come possano stare insieme pena di morte e condanna dell’aborto. L’enciclica “Evangelium vitae” di papa Wojtyla ricostruisce con estrema chiarezza e coerenza i termini di una questione tanto dibattuta ai nostri giorni.
di Bartolo Salone
Talvolta sentiamo di persone, anche credenti, che gridano allo scandalo nel ripensare a come nelle nazioni cattoliche, fino a qualche tempo fa, e perfino nello Stato Pontificio, fosse prevista e praticata la pena di morte con il beneplacito dell’autorità ecclesiastica. Per molti spiriti laici la pena di morte rappresenta uno dei peggiori retaggi della barbarie clericale, il cui superamento si deve solo al nuovo corso dei tempi, a cominciare dall’opera “Dei delitti e delle pene” dell’illuminista Cesare Beccaria (anche se neppure il Beccaria, ad onor del vero, escludeva in assoluto il ricorso alla pena capitale, individuando nella sua opera dei casi in cui la stessa dovesse addirittura reputarsi “necessaria”). Da molti cattolici di oggi, poi, le esecuzioni capitali sono considerate come un vero e proprio tradimento del Vangelo, a cui solo di recente il Magistero ecclesiale avrebbe posto rimedio, soprattutto grazie alla spiccata sensibilità che sul tema ha dimostrato di avere papa Wojtyla. La questione merita approfondimento, perché se da una parte è da salutare con favore la crescente sensibilità che si manifesta tanto nella società civile quanto nel mondo ecclesiale circa un uso limitato, se non addirittura nullo, della pena capitale, dall’altro non possiamo permetterci, come cattolici veramente “adulti”, di travisare la reale posizione della Chiesa su di un tema così delicato.
Innanzitutto, va sgomberato il campo dall’idea, eccessivamente semplicistica e pertanto fuorviante, per cui il Vangelo avrebbe bandito categoricamente la pena capitale. In realtà, se nell’Antico Testamento vediamo Dio stesso imporre la pena capitale in relazione a taluni gravi delitti (omicidio, adulterio, idolatria, per citare i principali), nel Nuovo Testamento non troviamo mai una esplicita condanna della stessa. Anzi, da taluni passi risulta implicitamente riaffermata la potestà dell’autorità costituita nell’irrogare l’estremo supplizio al condannato. Basti rammentare le parole di San Paolo nel capitolo 13 della Lettera ai Romani: “Vuoi non avere da temere l’autorità? Fa’ il bene e ne avrai lode, poiché essa è al servizio di Dio per il tuo bene. Ma, se fai il male, allora temi, perché non invano essa porta la spada; è infatti al servizio di Dio per la giusta condanna di chi opera il male”. Lo stesso Gesù si guarda poi dal contestare il potere di Pilato quando il governatore lo incalza: “Non sai che io ho il potere di metterti in libertà o di metterti in croce?” (Gv 19, 10), semplicemente ricordandogli da dove gli viene questa autorità, cioè da Dio. D’altro canto, Gesù salva l’adultera dalla lapidazione (è questo uno dei casi in cui la Legge mosaica “prescriveva” come necessaria la pena di morte) appellandosi alla coscienza dei presenti e facendo prevalere le esigenze della misericordia e del perdono, ma ancora una volta senza contestare in principio la legittimità della pena capitale. Pertanto, nel passaggio dall’Antico al Nuovo Testamento – la differenza può sembrare sottile, ma in realtà è di notevole importanza – l’irrogazione della pena di morte da obbligo “sociale” in relazione a taluni gravi delitti diventa una semplice facoltà a cui l’autorità legittima “può” lecitamente ricorrere dopo accurata e prudente valutazione. Da qui la distinzione che il Magistero, fedele alle Scritture e alla Tradizione, da sempre pone tra “legittimità” e “opportunità” della pena capitale: per quanto in astratto “legittima”, la pena di morte potrebbe non essere in concreto opportuna in relazione ai tempi, ai modi o ad altre circostanze.
Questa distinzione tra “legittimità” e “opportunità” costituisce una costante del Magistero ecclesiale e la ritroviamo perfino nella lettera enciclica “Evangelium vitae” di Giovanni Paolo II. Ma come conciliare la pena capitale con la sacralità della vita umana su cui tanta attenzione ripone l’Enciclica? Non è contraddittorio condannare come offesa al quinto comandamento l’aborto e al contempo ritenere legittima la pena di morte? In realtà, la contraddizione – ammonisce il Papa – è più apparente che reale, purché il tema sia inquadrato nella sua giusta cornice. Infatti, il quinto comandamento (“Non uccidere”) non impedisce al singolo di esercitare il diritto di difendersi qualora la propria incolumità sia messa in pericolo dall’altrui violenza, perfino se ciò comportasse il sacrificio della vita dell’ingiusto aggressore. Indubbiamente, “il valore intrinseco della vita e il dovere di portare amore a sé stessi non meno che agli altri fondano un vero diritto alla propria difesa”. Lo stesso precetto dell’amore, d’altronde, suppone l’amore per sé stessi quale termine di confronto (“Amerai il prossimo tuo come te stesso”). Pertanto, conclude il Papa, “al diritto di difendersi nessuno potrebbe rinunciare per scarso amore alla vita o a sé stesso, ma solo in forza di un amore eroico”. Se la difesa costituisce per il singolo un diritto, essa nondimeno rappresenta un dovere per coloro i quali, in funzione dell’autorità rivestita o dell’ufficio esercitato, sono responsabili della vita altrui. Nell’ambito della legittima difesa “collettiva” va quindi collocato il problema della pena di morte. La pubblica autorità, precisamente, ha il dovere di difendere l’ordine pubblico e la sicurezza delle persone nel rispetto della dignità del reo e della funzione “espiatoria” e rieducativa della pena, offrendo cioè al reo “uno stimolo e un aiuto a correggersi e a redimersi”. Ne consegue che la misura e la qualità della pena “non devono giungere alla misura estrema della soppressione del reo se non in casi di assoluta necessità, quando cioè la difesa della società non fosse altrimenti possibile”. Significativamente viene però precisato subito dopo che “a seguito dell’organizzazione sempre più adeguata dell’istituzione penale, questi casi sono ormai molto rari se non praticamente inesistenti”.
Pertanto, viene ribadita la “legittimità” in principio della pena di morte, ove amministrata dall’autorità riconosciuta, ma ne viene circoscritto decisamente l’ambito di operatività sul piano, appunto, della sua “opportunità”, che va accuratamente valutata e ponderata dall’autorità pubblica in relazione alla effettiva possibilità di difendere l’ordine pubblico e l’incolumità delle persone mercé il ricorso a mezzi incruenti, i quali – come ci ricorda il nuovo Catechismo della Chiesa cattolica – “sono meglio rispondenti alle condizioni concrete del bene comune e più conformi alla dignità della persona umana”.
“Se così grande attenzione – osserva ancora l’Enciclica – va posta al rispetto di ogni vita, persino di quella del reo e dell’ingiusto aggressore, il comandamento ‘Non uccidere’ ha valore assoluto quando si riferisce alla persona innocente”. Non solo al singolo, ma neppure allo Stato è consentito pertanto privare della sua vita un essere umano innocente, non potendosi evocare in tali casi il principio della legittima difesa individuale o collettiva. In conclusione, non è affatto contraddittorio sostenere, nei termini anzidetti, la liceità della pena capitale e al contempo condannare come gravissimi delitti contro la vita tanto l’aborto quanto l’eutanasia, come fa il Magistero ecclesiale con assoluta coerenza. Più problematico, invece, in una prospettiva laica, condannare la pena di morte, secondo la sensibilità oggi dominante, e nello stesso tempo ammettere la liceità dell’aborto o dell’eutanasia. Un punto, questo, su cui l’Evangelium vitae sollecita una seria riflessione presso la società civile.
di Bartolo Salone
Talvolta sentiamo di persone, anche credenti, che gridano allo scandalo nel ripensare a come nelle nazioni cattoliche, fino a qualche tempo fa, e perfino nello Stato Pontificio, fosse prevista e praticata la pena di morte con il beneplacito dell’autorità ecclesiastica. Per molti spiriti laici la pena di morte rappresenta uno dei peggiori retaggi della barbarie clericale, il cui superamento si deve solo al nuovo corso dei tempi, a cominciare dall’opera “Dei delitti e delle pene” dell’illuminista Cesare Beccaria (anche se neppure il Beccaria, ad onor del vero, escludeva in assoluto il ricorso alla pena capitale, individuando nella sua opera dei casi in cui la stessa dovesse addirittura reputarsi “necessaria”). Da molti cattolici di oggi, poi, le esecuzioni capitali sono considerate come un vero e proprio tradimento del Vangelo, a cui solo di recente il Magistero ecclesiale avrebbe posto rimedio, soprattutto grazie alla spiccata sensibilità che sul tema ha dimostrato di avere papa Wojtyla. La questione merita approfondimento, perché se da una parte è da salutare con favore la crescente sensibilità che si manifesta tanto nella società civile quanto nel mondo ecclesiale circa un uso limitato, se non addirittura nullo, della pena capitale, dall’altro non possiamo permetterci, come cattolici veramente “adulti”, di travisare la reale posizione della Chiesa su di un tema così delicato.
Innanzitutto, va sgomberato il campo dall’idea, eccessivamente semplicistica e pertanto fuorviante, per cui il Vangelo avrebbe bandito categoricamente la pena capitale. In realtà, se nell’Antico Testamento vediamo Dio stesso imporre la pena capitale in relazione a taluni gravi delitti (omicidio, adulterio, idolatria, per citare i principali), nel Nuovo Testamento non troviamo mai una esplicita condanna della stessa. Anzi, da taluni passi risulta implicitamente riaffermata la potestà dell’autorità costituita nell’irrogare l’estremo supplizio al condannato. Basti rammentare le parole di San Paolo nel capitolo 13 della Lettera ai Romani: “Vuoi non avere da temere l’autorità? Fa’ il bene e ne avrai lode, poiché essa è al servizio di Dio per il tuo bene. Ma, se fai il male, allora temi, perché non invano essa porta la spada; è infatti al servizio di Dio per la giusta condanna di chi opera il male”. Lo stesso Gesù si guarda poi dal contestare il potere di Pilato quando il governatore lo incalza: “Non sai che io ho il potere di metterti in libertà o di metterti in croce?” (Gv 19, 10), semplicemente ricordandogli da dove gli viene questa autorità, cioè da Dio. D’altro canto, Gesù salva l’adultera dalla lapidazione (è questo uno dei casi in cui la Legge mosaica “prescriveva” come necessaria la pena di morte) appellandosi alla coscienza dei presenti e facendo prevalere le esigenze della misericordia e del perdono, ma ancora una volta senza contestare in principio la legittimità della pena capitale. Pertanto, nel passaggio dall’Antico al Nuovo Testamento – la differenza può sembrare sottile, ma in realtà è di notevole importanza – l’irrogazione della pena di morte da obbligo “sociale” in relazione a taluni gravi delitti diventa una semplice facoltà a cui l’autorità legittima “può” lecitamente ricorrere dopo accurata e prudente valutazione. Da qui la distinzione che il Magistero, fedele alle Scritture e alla Tradizione, da sempre pone tra “legittimità” e “opportunità” della pena capitale: per quanto in astratto “legittima”, la pena di morte potrebbe non essere in concreto opportuna in relazione ai tempi, ai modi o ad altre circostanze.
Questa distinzione tra “legittimità” e “opportunità” costituisce una costante del Magistero ecclesiale e la ritroviamo perfino nella lettera enciclica “Evangelium vitae” di Giovanni Paolo II. Ma come conciliare la pena capitale con la sacralità della vita umana su cui tanta attenzione ripone l’Enciclica? Non è contraddittorio condannare come offesa al quinto comandamento l’aborto e al contempo ritenere legittima la pena di morte? In realtà, la contraddizione – ammonisce il Papa – è più apparente che reale, purché il tema sia inquadrato nella sua giusta cornice. Infatti, il quinto comandamento (“Non uccidere”) non impedisce al singolo di esercitare il diritto di difendersi qualora la propria incolumità sia messa in pericolo dall’altrui violenza, perfino se ciò comportasse il sacrificio della vita dell’ingiusto aggressore. Indubbiamente, “il valore intrinseco della vita e il dovere di portare amore a sé stessi non meno che agli altri fondano un vero diritto alla propria difesa”. Lo stesso precetto dell’amore, d’altronde, suppone l’amore per sé stessi quale termine di confronto (“Amerai il prossimo tuo come te stesso”). Pertanto, conclude il Papa, “al diritto di difendersi nessuno potrebbe rinunciare per scarso amore alla vita o a sé stesso, ma solo in forza di un amore eroico”. Se la difesa costituisce per il singolo un diritto, essa nondimeno rappresenta un dovere per coloro i quali, in funzione dell’autorità rivestita o dell’ufficio esercitato, sono responsabili della vita altrui. Nell’ambito della legittima difesa “collettiva” va quindi collocato il problema della pena di morte. La pubblica autorità, precisamente, ha il dovere di difendere l’ordine pubblico e la sicurezza delle persone nel rispetto della dignità del reo e della funzione “espiatoria” e rieducativa della pena, offrendo cioè al reo “uno stimolo e un aiuto a correggersi e a redimersi”. Ne consegue che la misura e la qualità della pena “non devono giungere alla misura estrema della soppressione del reo se non in casi di assoluta necessità, quando cioè la difesa della società non fosse altrimenti possibile”. Significativamente viene però precisato subito dopo che “a seguito dell’organizzazione sempre più adeguata dell’istituzione penale, questi casi sono ormai molto rari se non praticamente inesistenti”.
Pertanto, viene ribadita la “legittimità” in principio della pena di morte, ove amministrata dall’autorità riconosciuta, ma ne viene circoscritto decisamente l’ambito di operatività sul piano, appunto, della sua “opportunità”, che va accuratamente valutata e ponderata dall’autorità pubblica in relazione alla effettiva possibilità di difendere l’ordine pubblico e l’incolumità delle persone mercé il ricorso a mezzi incruenti, i quali – come ci ricorda il nuovo Catechismo della Chiesa cattolica – “sono meglio rispondenti alle condizioni concrete del bene comune e più conformi alla dignità della persona umana”.
“Se così grande attenzione – osserva ancora l’Enciclica – va posta al rispetto di ogni vita, persino di quella del reo e dell’ingiusto aggressore, il comandamento ‘Non uccidere’ ha valore assoluto quando si riferisce alla persona innocente”. Non solo al singolo, ma neppure allo Stato è consentito pertanto privare della sua vita un essere umano innocente, non potendosi evocare in tali casi il principio della legittima difesa individuale o collettiva. In conclusione, non è affatto contraddittorio sostenere, nei termini anzidetti, la liceità della pena capitale e al contempo condannare come gravissimi delitti contro la vita tanto l’aborto quanto l’eutanasia, come fa il Magistero ecclesiale con assoluta coerenza. Più problematico, invece, in una prospettiva laica, condannare la pena di morte, secondo la sensibilità oggi dominante, e nello stesso tempo ammettere la liceità dell’aborto o dell’eutanasia. Un punto, questo, su cui l’Evangelium vitae sollecita una seria riflessione presso la società civile.
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