martedì, luglio 02, 2013
Si infiamma il clima in Egitto. Il premier Hisham Qandil ha rimesso il suo mandato nelle mani del presidente Mohamed Morsi. Una decisione per cercare di allentare le tensioni in atto.

Radio Vaticana - Si sono dimessi anche i portavoce del presidente e del governo. Da parte sua, l'Alto commissariato Onu per i diritti umani ha lanciato un appello al capo dello Stato affinché ascolti le richieste del popolo, espresse durante le proteste degli ultimi giorni e ha chiesto alle parti di avviare ''un serio dialogo nazionale''. Intanto rimane confermato per questo pomeriggio, alle 17.00, l’ultimatum dell’opposizione che chiede le dimissioni del presidente ed elezioni anticipate. Ieri, Morsi ha respinto l'ultimatum delle Forze armate che ormai sono schierate con la piazza. Su questo aspetto Massimiliano Menichetti ha intervistato Gennaro Gervasio, docente di Storia e politica del Medio Oriente alla British University del Cairo: ascolta

R. - È fondamentale che gran parte dei manifestanti hanno salutato, quasi come una vittoria, l’ultimatum dell’esercito che è quello più importante rispetto a quello della disobbedienza civile. Molti immaginavano che l’esercito avrebbe potuto sentirsi in dovere di intervenire per arginare il caos - che in realtà ha contribuito a creare negli scorsi mesi -, però in pochi si aspettavano che ciò avvenisse subito dopo la grande manifestazione del 30 giugno.

D. - C’è già chi parla di un golpe dei miliari …

R. - Golpe … diciamo si parla di annuncio o comunque di un tentativo, di una possibilità di rientrare direttamente nello scenario da cui i militari erano usciti ufficialmente proprio il 30 giugno dell’anno scorso.

D. - Ma come è possibile che i militari rientrino in scena in questo modo?

R. - La polarizzazione è diventata tale da ritenere che un intervento dell’esercito possa emarginare definitivamente i Fratelli musulmani. Però, secondo me ci sono due problemi: innanzi tutto le intenzioni dell’esercito - supportato da una parte del gruppo dei ribelli Tamarrod che avevano votato per Shafik contro Morsi alle elezioni di un anno fa - sono tutt’altro che certe, compresa la road map di cui parlano e di cui non abbiamo alcuna idea, se non un passato poco promettente. Il secondo problema riguarda il fatto che i Fratelli musulmani non credo accetteranno di buon grado di uscire di scena in questo modo. Credo che ci sia una grossa miopia, e immagino che, al di là delle dichiarazioni, la leadership dei Fratelli musulmani stia cercando di trattare in qualche modo con l’esercito come è sempre avvenuto.

D. - Ma secondo lei, il presidente Morsi ha ancora margini di manovrabilità?

R. - Io penso di sì, però si stanno riducendo minuto dopo minuto. Quello che avrebbe potuto fare - chiaramente - sarebbe stato cercare di formare un governo di unità nazionale più inclusivo. Però, dopo la presa di posizione dei militari, credo che alcuni dell’opposizione in piazza, dove ci sono moltissimi che sono contro i Fratelli musulmani, prima di tutto, non si accontentano più di questa scelta, perché hanno letto l’ultimatum dell’esercito come un atto di sfiducia contro il presidente.

D. - Quali azioni dovrebbe intraprendere il presidente?

R. - Forse soltanto quella che però sarebbe comunque la parola “fine” per lui, cioè la richiesta di elezioni anticipate. Persino i salafiti - il gruppo più moderato che aveva sempre appoggiato Morsi al di là di alcune scaramucce retoriche, il partito Nour, che comunque era il secondo partito islamico egiziano nelle elezioni del disciolto parlamento - ha annunciato il ritiro del supporto a Morsi. Adesso insieme al resto dell’opposizione chiede le dimissioni e di avviarsi a elezioni anticipate. Alcuni poi chiedono che ci sia un referendum, ci troviamo davanti a scenari che non sono mai stati percorsi prima d’ora, in cui tutto è possibile.

D. - Le Nazioni Unite sono preoccupate per un possibile effetto domino sulla regione?

R. - L'effetto domino è già in azione. C’è la dinamica turca, c’è la guerra civile siriana, c’è la situazione in Libia che è tutt’altro dall’essere stabilizzata … È chiaro che l’Egitto, in quanto Paese più popoloso, in quanto Paese dove la rivoluzione ha avuto anche una risonanza internazionale, rimane da monitorare. Però, dal mio punto di vista, il fatto che ancora una volta la politica dal basso si sia imposta su quella alta, è un invito importante alla riflessione non solo a livello regionale ma a livello internazionale. Non possiamo confondere democrazie consolidate con democrazie in divenire in cui la legittimità popolare non viene espressa soltanto nelle urne.


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