giovedì, agosto 08, 2013
Situazione ancora critica in Egitto, dove è andata a monte la possibilità di una mediazione internazionale, guidata dagli Stati Uniti, per porre fine alla crisi politica in atto nel Paese.

Radio Vaticana - Il fallimento, che è stato annunciato dalla presidenza egiziana in una nota, riporta un clima di tensione, causato dalla netta contrapposizione tra sostenitori e oppositori del deposto presidente Morsi. Se da una parte, infatti, il Governo sostiene che le proteste dei Fratelli musulmani non sono state pacifiche, dall’altra la Fratellanza annuncia che i dimostranti ''non lasceranno le piazze del Cairo e dell'Egitto finché Morsi non tornerà presidente con i pieni poteri e non verrà ripristinata la Costituzione''. Salvatore Sabatino ha chiesto a Luigi Bonanate, docente di Relazioni Internazionali presso l’Università di Torino, quali sono i possibili scenari che si aprono per l’Egitto dopo questo fallimento della mediazione internazionale: ascolta

R. – Sono talmente tanti che è impossibile capire davvero qualcosa. Non riusciamo a capire a che punto ci dobbiamo fermare. Credevamo che con Morsi si fosse finalmente raggiunta una nuova stabilità, che frenava anche in gran parte la preoccupazione dei Fratelli Musulmani. Poi c’è stato il colpo di Stato – chiamiamolo così – contro Morsi e quindi una più forte barriera contro i Fratelli Musulmani, che però ha rilanciato il loro attivismo. La domanda che mi faccio in continuazione è: “Ci siamo occupati attentamente e seriamente, negli ultimi anni, di tutte queste cose o invece abbiamo guardato alla finestra, un po’ compiaciuti, un po’ ironici le cosiddette Primavere Arabe?”.

D. – Certamente quello degli Stati Uniti è un fallimento che scotta e che rimette di fatto in discussione il ruolo di mediatore che l’Egitto ha ricoperto negli ultimi decenni, in tutto lo scacchiere mediorientale...

R. – Questo è proprio il problema: gli Stati Uniti sono i mediatori per l’Occidente. L’Egitto era considerato il mediatore per il Medio Oriente, tanto che doveva servire nell’ambito della questione israelo-palestinese. Poi avevamo la Siria, che doveva essere il mediatore tra Iraq e tutto il resto. Forse è lì che sbagliamo. Non sto dicendo che l’alternativa siano gli interessi militari, ci mancherebbe, ma è la nostra prospettiva su tutto questo che mi sembra evidentemente carente. Non si è mai vista una situazione di questo tipo: tutti dovevano avere un certo ruolo e nessuno è riuscito ad assolverlo, ad adempierlo. Evidentemente abbiamo sbagliato qualcosa.

D. – Ci possiamo, a questo punto, aspettare una qualche mossa da parte di Israele, che ha tutto l’interesse di avere un Egitto stabile, capace di riportare, ad esempio, il Sinai ad una situazione di normalità?

R. – Ripartendo dal dialogo israelo-palestinese, su cui Obama aveva investito moltissimo: aveva dedicato il buon Kerry a non occuparsi d’altro negli ultimi sei mesi che della questione della riapertura del dialogo. E’ chiaro che questa situazione oggi rinforza oggettivamente Israele, nel senso che se l’Egitto non è più il Paese amico, o protettore in parte, della Palestina, ma più che altro di Gaza, è chiaro che in questo modo Israele si rafforza. Siccome, però, la cosa importante è quella di far partire finalmente dei veri colloqui di pace, di nuovo gli Stati Uniti non sapranno da che parte voltarsi.

D. – C’è, a questo punto, secondo lei, il rischio reale di una guerra civile in Egitto, così come paventato da molti commentatori internazionali?

R. – Io mi fermerei per ora ad essere rattristato e spaventato di fronte a quello che succede in Siria. Se dalla Siria, dove ci sono già più di 100 mila morti, andiamo verso l’Egitto, questo sarebbe l’incendio, non sarebbe più un’altra guerra civile, sarebbe l’incendio del Medio Oriente. Credo non ci sia nulla da temere di più nel mondo di oggi che questa ipotesi.


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