martedì, settembre 10, 2013
Intanto oggi si apre a L’Aja il primo processo contro William Ruto, attuale vice-presidente del Kenya, cui seguirà quello contro Uhuru Kenyatta, il presidente

di Silvana Arbia, ex-cancelliere della CPI

Giorni fa la stampa internazionale e nazionale ha pubblicato diverse analisi su una decisione del parlamento del Kenya di ritirare la propria adesione al sistema di giustizia penale internazionale fondato su un trattato, lo Statuto di Roma, adottato nel 1998 ed entrato in vigore il 1° luglio 2002. La sua entrata in vigore richiedeva la ratifica di almeno 60 stati, numero che fu possibile anche grazie alla ratifica di un rilevante numero di stati africani. Furono molti a pensare che lo Statuto di Roma sarebbe rimasto un pezzo di carta, un trattato tra i tanti, e comunque difficile da applicare. Non fu così, le 60 ratifiche furono raccolte in soli 4 anni circa, un arco di tempo brevissimo per un trattato internazionale. Lo Statuto di Roma prevede l’intervento della Corte nei casi in cui crimini internazionali di sua competenza (genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra e aggressione, quest’ultimo definito a Kampala nel 2010 ma non ancora in vigore) non siano perseguiti per mancanza di volontà effettiva o per mancanza di strutture e altri mezzi necessari all’interno dei paesi interessati. Lo Statuto quindi comporta una limitazione della sovranità statale in materia penale, non riconosce alcun tipo di immunità applicata a livello nazionale e, per la prima volta a livello internazionale, permette alle vittime di partecipare nei processi e ottenere riparazione.

Lo Statuto di Roma prevede le garanzie di difesa al più alto livello con un’effettiva presunzione di innocenza ed il rispetto dei diritti fondamentali della persona perseguita sia essa detenuta o in stato di libertà. Le vittime hanno un ruolo estremamente importante; sono state le loro sofferenze che hanno reso urgente un rimedio per evitare, si legge nel preambolo dello Statuto di Roma, che crimini atroci che turbano la coscienza dell’umanità intera si ripetano.

Ma perché si perseguono solo i crimini internazionali commessi da africani in paesi africani? Questa è la domanda di una certa classe politica africana La risposta che alcuni danno per fini politici di comodo è che la CPI è uno strumento del mondo occidentale per colonizzare l’Africa. Ma i fatti smentiscono: cinque stati africani hanno chiesto alla Corte di intervenire (Uganda, Repubblica democratica del Congo, Repubblica centrafricana, Costa d’Avorio, Mali); le situazioni di Darfur, Sudan e Libia sono state rinviate alla Corte dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Gli eventi che hanno seguito le elezioni 2007/2008 in Kenya, con gravi violenze ed un gran numero di vittime di massacri, stupri, persecuzioni e deportazioni, sono stati oggetto di indagini proprio motu, consentite dallo Statuto di Roma in un paese membro. Una camera preliminare ha autorizzato le indagini e ha confermato le accuse di crimini contro l’umanità, contro quattro dei sei indagati.
Un field office è stato aperto a Nairobi, per facilitare tutte le operazioni della Corte e per assicurare una presenza della Corte nei luoghi degli eventi. Io stessa mi sono recata lì per firmare gli accordi necessari per far funzionare tale ufficio. Ricordo l’emozione di tantissime persone che attendono che le responsabilità delle violenze perpetrate dopo le elezioni tra il 2007 e il 2008 siano identificate e punite e che le vittime ottengano riparazione.

La decisione politica di ritirarsi dal trattato che ha istituito la Corte è possibile: l’art.127 dello Statuto prevede che uno stato membro invii a tal fine una notificazione scritta al segretario generale delle Nazioni Unite (la Corte non è un organo delle NU), con effetti dall’anno successivo alla notifica o da una data successiva se indicata nella notificazione. Nonostante la notifica di ritiro, lo stato non è esente dagli obblighi di cooperazione con la Corte con riguardo a procedure iniziatesi prima della data di efficacia della notifica, né deve pregiudicare in ogni caso la trattazione, da parte della Corte, di questioni pendenti anteriormente alla data di efficacia.

Così, in attesa di conoscere se e quando la notifica avrà efficacia, domani chiunque potrà seguire l’apertura del processo contro William Rutu, attuale vice-presidente del Kenya, non detenuto, presunto innocente. Dopo due mesi di dovrebbe aprire quello contro Uhuru Kenyatta, attuale presidente del Kenya. L’Assemblea degli Stati parti dovrebbe vegliare a che il ritiro del Kenya dalla CPI avvenga senza pregiudizio per l’integrità del mandato della Corte. Penso per esempio ai testimoni, ai quali si dovrà assicurare la serenità e le condizioni necessarie per una testimonianza libera.

La Corte garantisce a Ruto e Kenyatta, come a qualsiasi imputato, la più ampia difesa e facoltà di prova a discolpa. I testimoni dell’accusa e quelli della difesa avranno assicurata la stessa protezione e la stessa assistenza. Le vittime pure saranno rappresentate da avvocati esperti.

Il percorso che la giustizia penale internazionale ha intrapreso è irreversibile. Crimini internazionali non possono rimanere impuniti e le vittime devono essere protette. Sono processi fondati su principi di una giustizia moderna, con attenzione particolare per i più deboli… e che forse tocca la sensibilità dei più forti. Ma quello del ritiro da parte del Kenya è comunque un grave precedente, che potrebbe intralciare seriamente il consolidamento e lo sviluppo della Corte, a scapito del diritto alla verità e alla giustizia, e in definitiva a scapito della pace. Un grave segnale di possibilità per alcuni stati di strumentalizzare la Corte e di scegliere tempi e modi per usarla a fini estranei alla giustizia.


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