Le incongruenze e le carenze della nostra legislazione in tema d’immigrazione trovano principale origine nella politica estera italiana
Ciò che duole è che nel dibattito di questi giorni non si parli abbastanza del motivo per cui questi uomini, donne e bambini arrivano sulle nostre coste in queste condizioni. Se non lo si fa adesso, quando è il momento giusto per parlare di Eritrea e degli eritrei, di Somalia e dei somali, ecc.? Il loro dramma non inizia a 700 metri dalla riva di Lampedusa ma comincia molto più lontano, nel loro stesso paese d’origine, prosegue nella fuga nel deserto, continua nelle brutalità e nello sfruttamento lungo il percorso. Solo alla fine c’è la tappa del mare: la traversata, stipati in imbarcazioni di scarsissima qualità e sicurezza (che non si sa se arriveranno a destinazione), è solo l’ultimo atto.
Dal 2009 al 2011 queste barche sono state respinte dalle forze di sicurezza italiane e libiche quando si trovavano ancora in acque internazionali. Nel film-documentario ‘Mare chiuso’, realizzato con il patrocinio di Unchr e Amnesty International, c’è la testimonianza di un eritreo sopravvissuto ad uno di questi viaggi della speranza. I profughi provenienti dall’Eritrea e dalla Somalia, dopo alcuni giorni di navigazione, rimangono senza carburante in mare aperto. Una nave militare italiana li avvista e li imbarca: loro esultano, cantano, attendono fiduciosi lo sbarco in Italia. Ma l’arrivo in Italia non avviene mai: vengono invece riportati indietro nel porto di Misurata. Per costringerli al trasbordo su una nave libica che li attende, vengono legati e picchiati. Uno di loro riesce ad avvicinare il Comandante dell’Unità navale italiana, lo supplica di non riconsegnarli ai libici (per tutti seguirà una lunga e brutale detenzione). L’Ufficiale, sorridendogli, risponde che ‘deve eseguire gli ordini’, che è un atto dovuto.
Non la pensa però così la Corte Europea per i diritti umani di Strasburgo: l’alto organo giudiziario ha condannato l’Italia a risarcire 15.000€ a ogni superstite dei ‘respingimenti in mare’. Il pronunciamento non è valso a correggere la politica adottata dall’Italia verso i profughi: nel nostro paese la condizione di ‘rifugiato’ segue un iter macchinoso e ingiusto, tanto che pochissimi riescono ad ottenerlo (finora ci sono riusciti solo in 2.000).
La cronaca dimostra che non si è fatto neppure un passo in avanti nella giusta direzione: i superstiti del naufragio sono stati accusati di reato di ‘immigrazione clandestina’ dalla Procura di Agrigento. Ancora una volta un ‘atto dovuto’ ci lascia attoniti, e non solo perché dato il contesto è infelice: il reato di ‘immigrazione clandestina’ non è una formalità, è l’anticamera del rimpatrio.
Mi ha fatto impressione la testimonianza di alcuni soccorritori impegnati nelle operazioni di salvataggio: hanno raccontato di persone sfinite che ad un passo dalla salvezza non avevano più la forza e forse la volontà di stringere la presa. Impregnati di gasolio, scivolavano giù guardando i soccorritori negli occhi finché si perdevano velocemente alla vista, perduti nella profondità del mare. E’ un racconto scioccante e lo è ancor di più se si pensa che anche i sopravvissuti rischiano di tornare in fondo al mare, nell’oblio da dove sono venuti.
Eppure è evidente che questi uomini, in base ai più elementari principi di umanità ed in virtù della Convenzione di Ginevra, avrebbero il sacrosanto diritto allo status di rifugiati. La Bossi- Fini si applica agli ‘immigrati clandestini’ ma questi uomini provenienti da Eritrea e dalla Somalia come possono essere considerati tali? La Somalia è completamente in mano ad al-Qaeda e l’Eritrea è in mano ad una dittatura paragonabile solo a quella della Corea del Nord: come può essere che uomini che non aspirano ad un posto di lavoro ma sono ‘semplicemente’ in lotta per la sopravvivenza siano quasi sempre rispediti al mittente? Che dopo anni nulla sia mutato è segno che c’è qualcosa di sbagliato che si deve correggere nella nostra legislazione: il massimo che si può concedere a questi uomini non può essere solo un buon funerale e un minuto di silenzio.
I nostri mezzi d’informazione stanno facendo un lavoro encomiabile descrivendo ciò che è accaduto con dovizia di particolari, ma non basta. La descrizione di quanto è successo è fin troppo accurata, ma da sola non è sufficiente a dare esatta nozione di cosa succede. Bisogna che si mostrino non solo i particolari della cronaca ma anche le incongruenze e le responsabilità di ciò che succede, collegando i fatti tra loro. Se così si facesse, a tutti sarebbe più evidente che i nostri leader politici soffrono di amnesia: essi hanno dimenticato che l’esodo dei migranti è la conseguenza diretta di aver indotto le primavere arabe e favorito il ‘terzo-mondismo’ senza preoccuparsi delle conseguenze per la gente; per decenni in nome del profitto si sono assecondate certe dittature ed altre no, ragionando solo in termini di convenienza e di affari.
Gli Usa ed il Vecchio Continente sono sempre più presenti in Africa, ma non in modo amichevole. Al contrario, sta prendendo piede un nuovo neocolonialismo: per esempio, la Francia si è ‘ripresa’ il Mali, la Costa d’Avorio e tutte le ex-colonie. Non è la sola ad agire così: tutti i paesi ‘più progrediti’ fanno tutto il possibile (lecito ed illecito) per avere sempre maggiore influenza in Africa, per ottenere governi più deboli e bisognosi di sostegno. L’esempio più eclatante di questo nuovo ‘modus operandi’ è l’attacco della Nato alla Libia: l’intervento è avvenuto sulla base di ‘false flag’ appositamente costruite e violando il mandato dell’Onu. La colpa di Gheddafi non era quella di essere un ‘eccentrico dittatore’ (lo era da 40 anni) ma quella di non avere debito con l’FMI, di comprare satelliti per le telecomunicazioni , di rilevare sempre più importanti partecipazioni nelle multinazionali, di aver dato condizioni commerciali nettamente favorevoli all’Italia… Oggi la ‘nuova’ Libia sappiamo cos’è: è un coacervo di bande jadiste che si contendono il potere. I ‘motivi umanitari’ che hanno giustificato la guerra non hanno funzionato (anche se poi la stessa ricetta è stata riproposta tranquillamente in Siria). L’Italia, proprio in base a questa doppia e falsa morale, per esempio con l’Eritrea (paese di origine della maggior parte dei naufraghi di Lampedusa) non ha nessun problema: con il presidente Afeworki (che esercita la dittatura più rigida di tutta l'Africa e finanzia i gruppi islamici in Somalia) il nostro paese vanta ottimi rapporti ed esercita intensi rapporti commerciali.
Così impantanati, con un piede in due staffe, come l’Italia potrà dare lo status di rifugiati agli eritrei? Come sbrogliare la matassa che abbiamo contribuito a ingarbugliare? Che politica si vuol mettere in atto per l’Africa? Da che parte cominciare? E soprattutto, lo si vuole fare realmente? La prima impressione è negativa: in primo luogo la politica internazionale, principale causa degli esodi, non è messa minimamente in discussione (basta pensare alla situazione siriana) ma si prosegue in modo ancor più spregiudicato.
In secondo luogo, al di là delle dichiarazioni di facciata, sembra evidente (a meno che non intervengano auspicabili cambiamenti) che non ci siano neanche i presupposti per un cambiamento della Bossi-Fini. Del resto basta leggere il piano programmatico del Viminale per rendersene conto…
di Patrizio Ricci
Ciò che duole è che nel dibattito di questi giorni non si parli abbastanza del motivo per cui questi uomini, donne e bambini arrivano sulle nostre coste in queste condizioni. Se non lo si fa adesso, quando è il momento giusto per parlare di Eritrea e degli eritrei, di Somalia e dei somali, ecc.? Il loro dramma non inizia a 700 metri dalla riva di Lampedusa ma comincia molto più lontano, nel loro stesso paese d’origine, prosegue nella fuga nel deserto, continua nelle brutalità e nello sfruttamento lungo il percorso. Solo alla fine c’è la tappa del mare: la traversata, stipati in imbarcazioni di scarsissima qualità e sicurezza (che non si sa se arriveranno a destinazione), è solo l’ultimo atto.
Dal 2009 al 2011 queste barche sono state respinte dalle forze di sicurezza italiane e libiche quando si trovavano ancora in acque internazionali. Nel film-documentario ‘Mare chiuso’, realizzato con il patrocinio di Unchr e Amnesty International, c’è la testimonianza di un eritreo sopravvissuto ad uno di questi viaggi della speranza. I profughi provenienti dall’Eritrea e dalla Somalia, dopo alcuni giorni di navigazione, rimangono senza carburante in mare aperto. Una nave militare italiana li avvista e li imbarca: loro esultano, cantano, attendono fiduciosi lo sbarco in Italia. Ma l’arrivo in Italia non avviene mai: vengono invece riportati indietro nel porto di Misurata. Per costringerli al trasbordo su una nave libica che li attende, vengono legati e picchiati. Uno di loro riesce ad avvicinare il Comandante dell’Unità navale italiana, lo supplica di non riconsegnarli ai libici (per tutti seguirà una lunga e brutale detenzione). L’Ufficiale, sorridendogli, risponde che ‘deve eseguire gli ordini’, che è un atto dovuto.
Non la pensa però così la Corte Europea per i diritti umani di Strasburgo: l’alto organo giudiziario ha condannato l’Italia a risarcire 15.000€ a ogni superstite dei ‘respingimenti in mare’. Il pronunciamento non è valso a correggere la politica adottata dall’Italia verso i profughi: nel nostro paese la condizione di ‘rifugiato’ segue un iter macchinoso e ingiusto, tanto che pochissimi riescono ad ottenerlo (finora ci sono riusciti solo in 2.000).
La cronaca dimostra che non si è fatto neppure un passo in avanti nella giusta direzione: i superstiti del naufragio sono stati accusati di reato di ‘immigrazione clandestina’ dalla Procura di Agrigento. Ancora una volta un ‘atto dovuto’ ci lascia attoniti, e non solo perché dato il contesto è infelice: il reato di ‘immigrazione clandestina’ non è una formalità, è l’anticamera del rimpatrio.
Mi ha fatto impressione la testimonianza di alcuni soccorritori impegnati nelle operazioni di salvataggio: hanno raccontato di persone sfinite che ad un passo dalla salvezza non avevano più la forza e forse la volontà di stringere la presa. Impregnati di gasolio, scivolavano giù guardando i soccorritori negli occhi finché si perdevano velocemente alla vista, perduti nella profondità del mare. E’ un racconto scioccante e lo è ancor di più se si pensa che anche i sopravvissuti rischiano di tornare in fondo al mare, nell’oblio da dove sono venuti.
Eppure è evidente che questi uomini, in base ai più elementari principi di umanità ed in virtù della Convenzione di Ginevra, avrebbero il sacrosanto diritto allo status di rifugiati. La Bossi- Fini si applica agli ‘immigrati clandestini’ ma questi uomini provenienti da Eritrea e dalla Somalia come possono essere considerati tali? La Somalia è completamente in mano ad al-Qaeda e l’Eritrea è in mano ad una dittatura paragonabile solo a quella della Corea del Nord: come può essere che uomini che non aspirano ad un posto di lavoro ma sono ‘semplicemente’ in lotta per la sopravvivenza siano quasi sempre rispediti al mittente? Che dopo anni nulla sia mutato è segno che c’è qualcosa di sbagliato che si deve correggere nella nostra legislazione: il massimo che si può concedere a questi uomini non può essere solo un buon funerale e un minuto di silenzio.
I nostri mezzi d’informazione stanno facendo un lavoro encomiabile descrivendo ciò che è accaduto con dovizia di particolari, ma non basta. La descrizione di quanto è successo è fin troppo accurata, ma da sola non è sufficiente a dare esatta nozione di cosa succede. Bisogna che si mostrino non solo i particolari della cronaca ma anche le incongruenze e le responsabilità di ciò che succede, collegando i fatti tra loro. Se così si facesse, a tutti sarebbe più evidente che i nostri leader politici soffrono di amnesia: essi hanno dimenticato che l’esodo dei migranti è la conseguenza diretta di aver indotto le primavere arabe e favorito il ‘terzo-mondismo’ senza preoccuparsi delle conseguenze per la gente; per decenni in nome del profitto si sono assecondate certe dittature ed altre no, ragionando solo in termini di convenienza e di affari.
Gli Usa ed il Vecchio Continente sono sempre più presenti in Africa, ma non in modo amichevole. Al contrario, sta prendendo piede un nuovo neocolonialismo: per esempio, la Francia si è ‘ripresa’ il Mali, la Costa d’Avorio e tutte le ex-colonie. Non è la sola ad agire così: tutti i paesi ‘più progrediti’ fanno tutto il possibile (lecito ed illecito) per avere sempre maggiore influenza in Africa, per ottenere governi più deboli e bisognosi di sostegno. L’esempio più eclatante di questo nuovo ‘modus operandi’ è l’attacco della Nato alla Libia: l’intervento è avvenuto sulla base di ‘false flag’ appositamente costruite e violando il mandato dell’Onu. La colpa di Gheddafi non era quella di essere un ‘eccentrico dittatore’ (lo era da 40 anni) ma quella di non avere debito con l’FMI, di comprare satelliti per le telecomunicazioni , di rilevare sempre più importanti partecipazioni nelle multinazionali, di aver dato condizioni commerciali nettamente favorevoli all’Italia… Oggi la ‘nuova’ Libia sappiamo cos’è: è un coacervo di bande jadiste che si contendono il potere. I ‘motivi umanitari’ che hanno giustificato la guerra non hanno funzionato (anche se poi la stessa ricetta è stata riproposta tranquillamente in Siria). L’Italia, proprio in base a questa doppia e falsa morale, per esempio con l’Eritrea (paese di origine della maggior parte dei naufraghi di Lampedusa) non ha nessun problema: con il presidente Afeworki (che esercita la dittatura più rigida di tutta l'Africa e finanzia i gruppi islamici in Somalia) il nostro paese vanta ottimi rapporti ed esercita intensi rapporti commerciali.
Così impantanati, con un piede in due staffe, come l’Italia potrà dare lo status di rifugiati agli eritrei? Come sbrogliare la matassa che abbiamo contribuito a ingarbugliare? Che politica si vuol mettere in atto per l’Africa? Da che parte cominciare? E soprattutto, lo si vuole fare realmente? La prima impressione è negativa: in primo luogo la politica internazionale, principale causa degli esodi, non è messa minimamente in discussione (basta pensare alla situazione siriana) ma si prosegue in modo ancor più spregiudicato.
In secondo luogo, al di là delle dichiarazioni di facciata, sembra evidente (a meno che non intervengano auspicabili cambiamenti) che non ci siano neanche i presupposti per un cambiamento della Bossi-Fini. Del resto basta leggere il piano programmatico del Viminale per rendersene conto…
Tweet |
Sono presenti 0 commenti
Inserisci un commento
Gentile lettore, i commenti contententi un linguaggio scorretto e offensivo verranno rimossi.